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Il quesito “Contro il virus Ebola serve una Nato della Salute?” sembra scontrarsi inesorabilmente con il più duro precetto realista della politica internazionale “la tua debolezza è la mia forza”.

Di fronte alla possibilità di un’epidemia che colpisce alcuni Stati piuttosto che altri, il pericolo è interpretato più come un’opportunità che come un rischio, o quanto meno, come l’occasione per “stare a guardare” quello che succede (see and wait direbbero oltremanica). L’affido della coordinazione dell’emergenza agli Stati Uniti con l’istituzione di una “NATO sanitaria”, fa trasparire un certo egocentrismo occidentale. In questo disegno miope, gli altri Paesi interessati dall’emergenza o potenzialmente vulnerabili, vengono estromessi dal processo decisionale e, cosa ancora più grave, si vedono avanzare richieste in odore di cessione della sovranità nazionale.

Allo stesso tempo, nel mondo globalizzato è del tutto inutile e dannoso definire strategie locali. La risposta all’emergenza dell’epidemia ebola che dall’Africa Occidentale si sta diffondendo a macchia d’olio soprattutto verso i punti di arrivo dei flussi migratori, potrebbe giungere da un altro elemento del tutto estraneo alla sanità. L’uovo di Colombo per affrontare il rischio pandemico, potrebbe essere offerto dalla constatazione che la globalizzazione si basa su un sistema interdipendente globale.

Difatti, un evento negativo prodotto in un punto del sistema (in questo caso l’ebola) può produrre effetti a cascata negli altri punti (negli altri Stati). Come riportato sul The Independent da Chris Green e Charlie Cooper, “l’emergenza pandemica del virus ebola deve essere trattata allo stesso modo della minaccia rappresentata dalle armi nucleari”. Nello stesso articolo il professor Peter Piot direttore della London School of Hygiene & Tropical Medicine che ha contribuito all’identificazione del virus spiega che “le preoccupazioni e gli sforzi devono essere concentrati sulla gravissima situazione in Africa occidentale. Se la risposta internazionale per frenare il focolaio non sarà immediata la devastazione di questi paesi sarà veramente orribile e rimarrà una potenziale fonte di infezione per i paesi limitrofi”.

Per superare il sacro egoismo nazionale serve dunque un nemico comune che faciliti una cooperazione internazionale senza riserve basata sulla salvaguardia della sicurezza nazionale. In questo senso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che per gestire focolai ed epidemie di rilevanza internazionale dispone di programmi come il Global Outbreak Alert and Response Network, ha un grande vantaggio rispetto ad altre organizzazioni. Tuttavia, l’ostacolo cruciale per la cooperazione internazionale rimangono i sistemi sanitari nazionali corrotti e inefficaci dei paesi colpiti dal virus.

In questo senso, a fianco di una cooperazione internazionale basata sul contrasto all’emergenza epidemica, bisogna prevedere un maggiore coinvolgimento della comunità di Intelligence che impedisca una “proliferazione” volontaria dei focolai facilitata dai sempre più frequenti flussi migratori.

Luigi Martino

Research Assistant PhD Course 
“Cyber Politics and International Relations”
Scuola Superiore Sant’Anna Pisa

Cultore della Materia “ICT Policies”
Scuola “Cesare Alfieri” Scienze Politiche
Università degli Studi di Firenze
Twitter: @mrtlgu

Ebola, mal comune utile alla cooperazione internazionale?

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