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Mentre la settimana politica si apre oggi con la grande chiamata a raccolta dei sindaci alla Camera e mentre imperversa il dibattito inconcludente sulla riforma del lavoro, con le infinite requisitorie e fratture del Partito Democratico, è importante portare l’attenzione sui veri nodi che fermano il pettine della ripresa economica italiana.

In questo quadro, sicuramente la prima grande sfida è la politica energetica. L’Italia, infatti, ha in merito una storia complessa e contraddittoria. Dopo che al principio degli anni Sessanta il miracolo economico passò attraverso la nazionalizzazione elettrica e la grande stagione del nucleare, eccoci giunti adesso, dopo due referendum e una crisi ventennale, ad una fase in cui l’approvigionamento e la produzione energetica procedono senza una vera pianificazione industriale, con costi e perdite irrazionali, attività scarse e mal gestite.

L’Italia continua, insomma, ad essere il Paese di sempre, specialmente da questo punto di vista, anche se considerevolmente più povero di allora dal punto di vista della capacità di creare, attrarre investimenti e generare opportunità professionali. Che senso ha, ad esempio, discutere ideologicamente sul lavoro se prima non si mettono in atto le condizioni per avere risorse e capitale sufficienti per generare e implementare lo sviluppo e l’occupazione?

Il problema, tutto sommato, è semplice. Come spiegava bene Giorgio Ruffolo anni or sono, la produzione non è altro che la trasformazione al minor costo di risorse presenti in ricchezza futura. Ed è perciò che alla fine si torna sempre daccapo a parlare di energia, dei suoi oneri e delle sue opportunità.
Sicuramente ai tempi di Amintore Fanfani, Enrico Mattei e Felice Ippolito, il Paese ragionava con una logica diversa, simile a quella del Giappone, che poco o per nulla coincide ormai con quella presente. Ciò è vero anche se, guardando i dati più recenti, si constata altrettanto bene che i problemi nazionali sono restati invece invariati, sempre completamente rimossi dalla discussione pubblica.

Attualmente le fonti energetiche si sono ampliate, è cresciuta enormemente la portata potenziale delle energie rinnovabili (come lo sfruttamento della geotermia, dell’idroelettrica, dell’eolica, delle biomasse e del solare), anche se in Italia la produzione elettrica avviene perlopiù ancora con l’utilizzo di fonti non rinnovabili (ossia mediante i combustibili fossili, gas naturale, carbone e petrolio), in gran parte importate dall’estero.

Insomma il nostro Paese continua a consumare energia straniera, approvvigionandosi direttamente o indirettamente da altri Stati (circa il 75%), mentre non esiste un piano strategico di produzione interna che massimalizzi le innovazioni tecnologiche, cuore della nostra geniale inventiva e capacità di ricerca.
Il recente decreto “sblocca Italia”, a dire il vero, dedica una parte di rilievo alla politica energetica, ipotizzando 15 miliardi di euro di investimenti per la valorizzazione dei giacimenti di idrocarburi. Il testo riconosce il carattere strategico delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione, nonché quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale, tratteggiando perfino procedure effettive per attuarle.

Nonostante, quindi, il pessimismo dilagante e la retorica del “non si può fare niente”, alcune idee ci sono e sarebbe possibile muoversi perfino velocemente in questa direzione. Tanto più che dall’energia dipende tutto: sia l’abbattimento dei costi di produzione, sia la concretizzazione della politica industriale e sia la tutela ambientale, oggi divenuta, se gestita con intelligenza, una parte integrante della stessa produttività.

Una scelta importante, ad esempio, sarebbe operare in modo efficace a favore di un piano serio, almeno quindicinale, per le infrastrutture, sia visibili (strade, ferrovie, eccetera), sia invisibili (banda larga e telecomunicazioni in genere).

Un tale complesso insieme di iniziative circoscritte e nette dovrebbero essere la prima e sostanziale preoccupazione dello Stato, dalla cui azione, sebbene in misura diversa e minore rispetto al passato, dipende ancora in modo principale la competitività economica di un particolare sistema produttivo.
Certo, il vero impedimento, continuamente evocato, è quello del debito pubblico, il quale sembra presentarsi, assieme ai vincoli europei, come un limite insuperabile per le iniziative pubbliche. In realtà, il modo più efficace per rendere possibile una vera ripresa dell’iniziativa economica privata è associato esattamente alla riduzione della spesa pubblica per favorire gli investimenti. La questione non è, insomma, risparmiare per onorare il debito, impoverendosi collettivamente, ma spendere meno pubblicamente per investire di più in attività che siano direttamente e indirettamente produttive. Con la crescita economica, infatti, si crea lavoro e si onora progressivamente anche il debito pubblico, senza impoverirsi bruciando i risparmi.

Sbloccando la molla degli investimenti, si crea capitale, si attraggono risorse, si sviluppa lavoro e profitto per tutti. Una ricetta, tutto sommato, moderna e di buon senso che è poco ragionevole non assumere con convinzione.

D’altronde, veramente pensiamo che l’articolo 18 possa rappresentare una discussione rilevante nella crisi in cui siamo? Davvero si pensa che da una sterile contrapposizione politica sul diritto formale di tutela del lavoratore possa venir fuori una crescita in grado di colmare la disoccupazione che abbiamo, specialmente tra i giovani del Sud?

Ma via. È ridicolo. Perlomeno tutto ciò è lontano da un’idea sensata di progresso pubblico e privato dell’economia, unica cosa che può permettere rapidamente di uscire dal ristagno. Come insegnava Giorgio La Pira, la ricchezza comune dipende dall’indice di produttività sociale dei cittadini. E l’aumento di questo parametro materiale è intrinsecamente collegato al capitale strutturale e infrastrutturale che lo Stato mette a disposizione delle imprese. Queste, a loro volta, mettendo a disposizione gli strumenti pubblici e producendo privatamente profitto, a loro volta, assumeranno e colmeranno il divario di disoccupazione esistente, aumentando la domanda di lavoro e colmando il debito.

Lo Stato deve per questo fare una cura dimagrante molto rigorosa, limitando il perimetro delle proprie attribuzioni, diminuendo fortissimamente l’impatto che ha sul bilancio la Pubblica Amministrazione, rendendo efficienti e snelli i servizi, così da convogliare verso i soggetti sociali realmente competitivi le proprie risorse.

Non ha senso pensare ai diritti del lavoro senza una domanda. E la domanda dipende da un’offerta che né lo Stato né i sindacati possono attualmente determinare, ma solo le imprese concretamente produttive sul mercato internazionale. Tra l’altro, in un contesto globalizzato, senza facili protezionismi, ad attrarre investimenti sono unicamente, oltre alle garanzie di giustizia e di equità fiscale, ancora una volta i bassi costi energetici e le infrastrutture efficienti.

Se lo “sblocca Italia” vuole veramente far decollare il Paese, in conclusione, la ricetta del Governo deve essere risparmiare spese inutili e investire in cose utili, facendo magari un piano energetico nazionale che ormai non si elabora seriamente in Italia dal 1988.

La colpa, in fin dei conti, se non cresciamo non è dell’Europa, ma nostra, cioè della nostra inconcludenza politica. Con buona pace dei sindaci e del Partito Democratico.

Politica energetica e rilancio dell'Italia

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