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L’osservatore distratto che si avventuri lungo la storia monetaria degli Stati Uniti arriverebbe agevolmente a un paio di conclusioni.

La prima è che le autorità Usa non si fanno alcuno scrupolo a far pagare il costo delle loro decisioni a larghi strati della loro popolazione e, in subordine, al resto del mondo. Quest’ultimo gli Usa lo vivono come un fastidioso altro da sé con cui doversi regolare e, di volta in volta, convincere, con le buone se possono, o sennò con le cattive.

La seconda conclusione è che le autorità americane si sono dimostrate sempre assai creative e altrettanto spregiudicate. Il famoso pragmatismo americano non si perita di distruggere consuetudini ultradecennali se ciò giova all’America e al suo principale feticcio: la sicurezza nazionale.

La sensazione, perciò, è che gli Usa si percepiscano principalmente come un’isola, e non a caso il dibattito sulle loro tentazioni autarchiche, che oggi trovano la migliore declinazione nell’autosufficienza energetica che gli Usa si apprestano a ritrovare, non tramonta mai, pur avendo piena contezza gli americani, ma in subordine, del loro peso globale. Ciò che va bene all’Amaerica va bene pure al resto del mondo, sembrano pensare. Ma anche se così non fosse, peggio per lui.

Tali considerazioni diventano quantomai attuali in un momento in cui è chiaro a tutti che la soluzione alla crisi che sta ancora tormentando l’economia globale non potrà essere trovata senza mettere mano all’infrastruttura finanziaria, da un parte, e al sistema monetario, dall’altra. Senonché parlare di sistema monetario senza tenere conto di ciò che decideranno gli Usa è come parlare di conto senza interpellar l’oste. E l’oste non è la Federal reserve, che pure in questi anni ha fornito pasti abbondanti a casa propria e all’estero.

L’oste è il Tesoro americano che, come la storia ci insegna, non si fa il minimo scrupolo a mettere fuori gioco la banca centrale quando serve. Ricordo che solo nel 1951, dopo la messa in panchina decisa negli anni ’30 da Roosevelt, la Fed tornò a svolgere in piena autonomia il suo ruolo di banca centrale. Il Tesoro infatti aveva affidato a un suo organismo tecnico, l’Exchange Stabilization Fund (ESF) creato col Gold reserve act del ’34, la gestione delle operazioni di mercato aperto su oro e valute.

Il fondo, capitalizzato con i due miliardi di dollari che il Tesoro ricavò dall’aumento del prezzo dell’oro decso dal presidente (dai 20,67 ai 35 dollari l’oncia), agiva in totale autonomia dalla Fed, alla quale rimase il compito di eseguire le transazioni alla stregua di un qualunque agente di cambio. Tanto è vero che il governatore Eugene Black si era già dimesso nel ’33, una volta fiutata l’aria che tirava.

A chi creda che tali informazioni appartengano all’archeologia, basterà ricordare che l’ESF americano è tuttora un organismo funzionante e che da ultimo è stato utilizzato nel 2008 dal governo per stabilizzare alcuni segmenti del mercato monetario. Così come d’altronde è ancora in vigore il Gold reserve act del ’34 che, lo ricordo, cambiò per decreto presidenziale il valore del dell’oro tramite una forte svalutazione del dollaro, il cui valore su più che dimezzato.

Fu l’inizio di un processo che condusse, quarant’anni dopo, a un altro momento di importanza storica: la demonetizzazione dell’oro. Ciò segnò l’avvento del vigente dollar standard, che peraltro gli Usa perseguivano silenziosamente già dagli anni Venti, rifiutandosi di trasformare le notevoli riserve d’oro che andavano accumulando in inflazione, come pure avrebbero richiesto le regole del gioco del Gold exchange standard, e costringendo l’Inghilterra a farsi carico di pesanti deflazioni monetarie per sostenere la parità d’anteguerra con l’oro fino a quando, nel 1931, dopo le crisi bancarie austro-tedesche, la sterlina diede forfait.

Vale la pena fare un altro rapido passo indietro per ricordare che la demonetizzazione dell’oro, ossia togliere all’oro il suo ruolo di mezzo di pagamento e di riserva, lasciandogli solo quello di riserva di valore, non è stata la prima demonetizzazione decisa dagli Usa.

Gli storici ricordano la demonetizzazione dell’argento decisa con il Coinage Act del 1873, che tanta parte degli americani bollò con l’epiteto “crimine del ’73”. La legge fece entrare di fatto (di diritto entrerà solo nel 1900) gli Usa nel Gold Standard classico.

All’epoca a pagare il conto furono innanzitutti i proprietari di miniere d’argento, che però furono salvati per il ventennio successivo grazie alla decisione del govero di comprare argento a prezzi assai superiori a quelli di mercato, visto che l’argento iniziò a soffrire di pesanti svalutazioni verso l’oro. Il prezzo più alto lo pagarono ampie fasce di popolazioni. L’ingresso nello standard aureo provocò una notevole ondata deflazionaria che distrusse il reddito di milioni di contadini, i debitori che speravano nel potere inflazionario dell’argento, a vantaggio dei creditori, le banche, che invece avevano tutto da guadagnare acché i loro crediti conservassero il loro valore agganciandoli all’oro.

Anche questa storia parrà a molti remota. Ma il fatto che sia passato tanto tempo, non vuol dire che le cose siano cambiate. La storia è sempre la stessa: creditori contro debitori, con il governo a fare l’arbitro e decidere chi debba vincere la partita. Solo che stavolta i debitori sono gli Usa, il cui debito denominato in dollari gira come un forsennato per il mondo. E, gli Usa sono, come si usa dire, “armati e pericolosi”.

Volete una prova? Quando il problema degli Usa fu l’argento, si risolse di demonetizzarlo, sostituendolo con l’oro. Quando il problema fu l’oro, si risolse di demonetizzarlo sostituendolo con il dollaro. Adesso è il problema è il dollaro, la cui gestione ordinata richiederebbe sacrifici e responsabilità che gli Usa non sembrano volersi caricare sulle spalle.

Cosa rimane da fare allora se la ripresa continuasse ad essere inconcludente? Facile: “demonetizzare” il dollaro. Ossia “annacquarlo” in un nuova moneta di riserva, magari agganciata all’oro, dopo averlo decisamente svalutato. In tal modo si “distruggerebbe” il debito americano a spese di chi lo detiene, americani compresi. In sostanza ciò farebbe il lavoro dell’inflazione, che però non si decide a partire, e ribaltare gli indicatori di sostenibilità fiscale agendo non più sul denominatore, ossia il Pil, che scarseggia, ma sul valore reale del numeratore.

Tra l’altro la moneta di riserva già c’è: i diritti speciali di prelievo del Fmi (SDR), creati dopo il caos monetario di fine anni ’60-anni ’70, ed emessi dal Fmi, dove gli Usa, è bene ricordalo, sono ancora gli azionisti di maggioranza. Solo che ancora sono emessi in regime di fiat money, e non esiste un mercato liquido e diffuso abbastanza da prendere il posto dei verdoni. Ma è solo questione di tempo e di volontà. Sempre che, ovviamente, si trovi il consenso internazionale.

A questo serve il Fmi. Solo che gli Usa non sono tanto generosi da cedere il passo senza una corposa buonuscita. Non a caso la riforma del Fmi del 2010, che avrebbe redistribuito i pesi decisionali fra i paesi tenendo conto della crescita degli emergenti è stata stoppata dal Congresso Usa, lasciando il Fmi indispettito, ma non rassegnato.

Nell’ultimo staff report del Fmi dedicato proprio agli Usa, i tecnici dedicano giusto un paio di righe alla questione della riforma delle quote del Fondo, proprio al termine dell’analisi sulla sostenibilità fiscale americana, notando soltanto come “l’implementazione della riforma del 2010 rimane un’alta priorità e che gli Usa devono con urgenza ratificarla alla prima occasione utile”. Le autorità Usa hanno replicato all’osservazioni evidenziando che le quote Fmi devono effettivamente riflettere il peso dei paesi nell’economia globale, sottolineando di aver attivamente lavorato col Congresso per arrivare a una legge che recepisca la riforma proposta dal Fmi nel 2010″. Il problema è capire di che peso stiamo parlando.

Tale atteggiamento interlocutorio non deve tranquillizzare. Gli americani ci mettono anni a fare la propria mossa, ma poi, quando si trovano davanti a un bivio con alternative difficili, la fanno. E la fanno sempre in splendida solutudine, come è accaduto negli anni ’30 e negli anni ’70.

In uno scenario siffatto, molti scommettono sulla circostanza che l’oro tornerà a giocare un nuovo ruolo, anche se non è chiaro quale. Ricordo però che gli Usa detengono ancora le più ampie riserve d’oro del mondo, a parte l’eurozona considerata nel suo complesso, e questo, in un eventuale ripensamento del sistema monetario gold-based è di sicuro un punto di forza.

Fra gli anni ’50 e i ’70 del XX secolo, a causa delle richieste di conversione di dollari in oro effettuate dagli europei, gli americani hanno ceduto 11.000 tonnellate d’oro, ma ne hanno ancora 8.133, retaggio della politica degli anni ’30, che, peraltro, sono ancora valutate a 42,22 dollari l’oncia, ossia al prezzo dell’oro fissato nel ’74 dopo la fine di Bretton Woods e le successive svalutazioni pilotate dopo la fine della parità a 35 dollari, decisa sempre negli anni ’30, e abolita da Nixon. Tale tesoro nasconde perciò una plusvalenza potenziale di centinaia di miliardi di dollari, che crescerà in ragione dell’andamento del dollaro sull’oro.

La domanda è: gli Usa possono influenzare da soli la quotazione dell’oro, usandola per svalutare il dollaro quel tanto che giudicheranno necessario per effettuare il loro riequilibrio?

Abbiamo già visto che gli strumenti messi in piedi dal New Deal sono ancora attivi. Gli Usa potrebbero semplicemente rivalutare le riserve d’oro al prezzo che ritengono più opportuno per i loro interessi. E poiché il prezzo è donominato in dollari, l’operazione avrebbe conseguenze internazionali facilmente immaginabili. Il Tesoro, fra le altre cose, può disporre di un fondo di stabilizzazione, capitalizzato abbastanza dalle plusvalenze auree, da poter intervenire con operazioni di mercato aperto sulle quotazioni auree. E inoltre i paesi del futuro blocco monetario, Eurozona e Cina, sono abbastanza piene d’oro da assorbire lo shock di un aumento improvviso del costo dell’oro semplicemente valutandolo ai prezzi correnti che saranno.

La Cina, in particolare, grande creditrice Usa, ha accumulato in questi anni notevoli riserve il cui ammontare ancora non si conosce con precisione, visto che la banca centrale non ha ancora aggiornato le sue statistiche, anche se alcune stime le collocano intorno alle 4.000 tonnellate. Lasciare che la Cina accumuli oro a sufficienza per sopportare senza sconquassi il riprezzamento del dollaro rispetto all’oro potrebbe essere di sicuro un gesto di cortesia, da parte degli Usa. Ma non è detto che vada così.

Ovviamente nessuno sa se questo scenario sottintenda un piano, o se si tratti di ipotesi di scuola. Quel che sembra certo è che gli Usa devono dare importanti segnali di risanamento al sistema finanziario globale e non è chiaro se vorranno o sapranno darli.

Fino ad allora varrà la massima di John Connally, segretario al Tesoro dell’epoca in cui Nixon chiuse la finestra aurea, che ammoniva gli alleati europei sul fatto che “il dollaro è la nostra moneta, ma un vostro problema”.

Sono passati più di quarant’anni ed è ancora così.

Usa al bivio: La demonetizzazione del dollaro

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