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Nel suo messaggio televisivo di auguri di buon anno ma anche di congedo presidenziale dalle famiglie italiane, e da “chi presto mi succederà” al Quirinale, Giorgio Napolitano ha tenuto a motivare le sue vicine dimissioni con ragioni esclusive di salute. I suoi 89 anni e mezzo, per quanto ben portati, giustificano indubbiamente quello ch’egli ha voluto definire sul piano morale, politico e istituzionale “il dovere di non sottovalutare i segni di affaticamento” avvertiti nell’esercizio del suo secondo mandato, cominciato meno di due anni fa e inedito nella storia della Repubblica.

Segni di affaticamento, a dire il vero, erano presenti anche verso la fine del primo incarico, quando agli amici ed estimatori che ne auspicavano e sollecitavano la rielezione a causa della già allora ingarbugliata situazione politica egli fece pervenire direttamente, o indirettamente con lettere e telefonate di familiari e collaboratori strettissimi, l’”esortazione a lasciar perdere” appunto per la sua età. Oltre che per la sua convinzione, ribadita anche nell’ultimo messaggio televisivo, dell’assoluta congruità del mandato presidenziale di sette anni fissato dalla Costituzione.

Solo l’eccezionalità della crisi politica e istituzionale esplosa dopo le elezioni del 2013, quando le forze politiche uscite dalle urne non si rivelarono capaci né di formare un nuovo governo né di eleggere un suo successore, egli si arrese alla stragrande maggioranza parlamentare formatasi sulla decisione di chiedergli di rimanere al suo posto. E lui accettò, a trasloco già cominciato dal Quirinale, con il dichiarato proposito di non restarvi a lungo.

Proprio quel proposito di breve proroga è stato rispettato da Napolitano con il messaggio di commiato. Che per la sua dignità e coerenza dovrebbe fare arrossire di vergogna vecchi e nuovi avversari e critici, che hanno dipinto il presidente come uno spregiudicato tessitore di trame, impegnato a rimanere al Quirinale sino alla morte, letteralmente, in una concezione regale del proprio ruolo, non per scherzo ma per davvero. Questi signori – si fa per dire – sono stati serviti, e smentiti, dalle parole e dai tempi del congedo del signore – lui sì – che sta per passare volontariamente la mano ad un successore, augurabilmente in linea con quel cambiamento anagrafico, o di “ritmo”, come direbbe Matteo Renzi, che ha contrassegnato l’arrivo dello stesso, giovanissimo Renzi alla guida del governo, a meno di 40 anni di età, con tanto di decreto di nomina firmato da Napolitano e tanto di fiducia accordata e più volte confermata dalle Camere. Ma, certo, il “ritmo” generazionale del cambiamento al Quirinale non potrà essere uguale a quello sperimentato a Palazzo Chigi per quella soglia minima di 50 anni richiesta dalla Costituzione per il vertice dello Stato.

Si ha purtroppo motivo di ritenere, o temere, che per l’ormai imminente successione al Quirinale non si potrà neppure verificare la condizione auspicata da Napolitano quando ha invitato le forze politiche a “prepararsi serenamente alla prova” che le attende nell’aula di Montecitorio, dove si svolgeranno le votazioni. La serenità non è un sentimento o una realtà diffusa nei partiti, grandi o piccoli che siano, tutti investiti, anche o soprattutto quelli a più forte conduzione personale, da tensioni e rancori. Non vi ha contribuito di certo Renzi, fresco di elezione a segretario del Pd, con quell’ invito beffardo a stare “sereno” rivolto l’anno scorso, di questi tempi, al collega di partito Enrico Letta, che egli invece si apprestava a scalzare da Palazzo Chigi.

Di quel disinvolto passaggio di Renzi, e forse anche di altri successivi, come le reiterate minacce, dirette o indirette, di elezioni anticipate, le cui chiavi sono però soltanto nelle mani del presidente della Repubblica, Napolitano avrebbe avuto la possibilità e il diritto di dolersi nel messaggio di commiato, sia pure in modi consoni alle circostanze e al ruolo. Ma, per quanto probabilmente affaticato o allarmato anche dalle iniziative o dai propositi del presidente del Consiglio, egli ha taciuto per evidenti e apprezzabili ragioni di galateo istituzionale e personale.

Il presidente uscente della Repubblica ha preferito vedere il bicchiere mezzo pieno, anziché mezzo vuoto, riconoscendo allo stesso Renzi e, più in generale, alla politica italiana il merito di avere quanto meno “avviato” il processo di riforme istituzionali e, insieme, anche di “normalizzazione” del Paese, sotto ogni profilo, non solo quello economico.

Napolitano potrà seguirne gli sviluppi, e magari anche concorrervi, come si è d’altronde proposto di fare, nella postazione che lo attende di senatore di diritto, e a vita. E anche in questa veste gli vanno sinceramente e coralmente ricambiati gli auguri ch’egli ha fatto agli italiani, peraltro kennedianamente e felicemente invitati in qualche modo a chiedersi non che cosa possa fare lo Stato per loro ma che cosa possiamo fare “ciascuno di noi” per lo Stato.

Il commiato di Napolitano col bicchiere mezzo pieno

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