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Oggi il Governo (dopo la maratona che ha condotto al varo contrastato della legge di stabilità 2015) presenterà i primi schemi di decreti delegati in attuazione del Jobs act Poletti 2.0. Salvo sorprese dell’ultima ora si tratterà di due provvedimenti: il primo relativo all’istituzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (il clou della legge delega n. 183/2014); il secondo, se si chiarirà il problema delle coperture, concernente l’estensione dell’Aspi a categorie attualmente prive, tra le quali quei collaboratori la cui tipologia contrattuale dovrebbe essere superata (nel frattempo è ripartita, per loro e per gli altri iscritti alla Gestione separata presso l’Inps, quell’incremento dell’aliquota contributiva, fino ad ora rinviato, che li porterà a raggiungere il 33% nel giro dei prossimi anni).

Pur non volendo dare eccessivo credito alle voci che si rincorrono a proposito delle mediazioni delle ultime ore, diventa difficile sottrarsi all’impressione di un dejà vu ovvero del ripetersi, mutatis mutandis, di quanto avvenne, nella primavera del 2012, al momento della definizione del disegno di legge presentato dal ministro Elsa Fornero.

In sostanza, a conti fatti, c’è il rischio che tutta l’operazione – di cui si discute da mesi tra lancinanti mal di pancia politici e sindacali – si traduca in un irrigidimento del mercato del lavoro. E, cioè, che le timide modifiche apportate all’articolo 18 non compensino il giro di vite sui contratti a termine e sulle collaborazioni.

Preoccupa, in particolare, una notizia dell’ultima ora secondo la quale, allo scopo di rendere più appetibile il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti,  sarà manomessa, nel decreto legislativo, la disciplina del contratto a termine come regolata, appunto, dal decreto Poletti (il Jobs act 1.0), che tanto interesse ha suscitato nei datori di lavoro, fino a rappresentare il principale elemento di flessibilità.

Dagli attuali 36 mesi del tutto ‘’acausali’’, si dovrebbe passare a  24. Così, per valorizzare ulteriormente un istituto di nuovo conio (il contratto a tutele crescenti, appunto) non basterebbero i robusti bonus incentivanti (fino a 8mila euro) a decorrere dal prossimo 1° gennaio; è tuttora presente la preoccupazione che le aziende preferirebbero continuare ad assumere a termine, con modalità più onerose, ma con la sicurezza di non finire davanti ad un giudice, come rimarrà più che probabile, invece, con le soluzioni che si ipotizzano nel caso di licenziamento disciplinare.

Del resto – diceva un saggio – sarebbe molto stupito svegliarsi al mattino e lamentarsi di essere uguali a come ci si era coricati la sera prima. Se è pacifico – allora – che, nel caso di nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, il licenziamento economico ingiustificato sarà sanzionato soltanto con un indennizzo (si sta discutendo sulla misura e se, oltre ad un tetto massimo, debba essere prevista anche una soglia minima) è altrettanto chiaro che, per talune ‘’specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato’’ il giudice potrà ordinare la reintegra. Pare che il governo si stia orientando a sanzionare in questo modo i casi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto (giuridico o materiale?) che ha determinato il recesso. In sostanza, più o meno quanto è  già previsto nella legge Fornero.

La montagna si appresta, così, a partorire il topolino, come denunciano alcuni settori della maggioranza? Forse sarebbe stato meglio vigilare, a tempo debito e con più rigore, sulle mediazioni che il Pd conduceva al proprio interno, piuttosto che sperare di ignorarne la portata al momento dei decreti. Se si vuole avere la mano leggera nel caso del licenziamento per motivi soggettivi occorrerebbe almeno riconoscere – è un’ipotesi presente nel dibattito – al datore soccombente l’alternativa di optare per un’indennità risarcitoria predefinita, anziché attenersi all’ordine di reintegra. Oppure, se si volesse imitare la ‘’virtuosa’’ Germania, si potrebbe introdurre il principio per cui il giudice, prima di ordinare la reintegra, dovrebbe accertarsi se è recuperabile il rapporto fiduciario tra il datore e il suo dipendente.

Alla fine, possiamo concludere che anche le leggi sono prigioniere del loro destino. Per diversi motivi, durante il travagliato percorso legislativo della delega (che ha lo stesso numero del ‘’collegato lavoro’’ del 2010, il fiore all’occhiello del Governo Berlusconi), si è assistito ad un duro confronto politico che non trovava adeguato riferimento nelle norme che venivano man mano affastellandosi nella ‘’navetta’’ tra le due Camere. Il governo e la maggioranza dichiaravano intenti innovatori non riscontrabili nei principi e criteri direttivi; le opposizioni (a partire da quelle interne al Pd e dalla Cgil) denunciavano gravi abusi di cui non vi erano tracce negli articolati.

La montagna partorirà il topolino? Lo vedremo oggi. E nei prossimi giorni; perché sarebbe sbagliato sottovalutare il peso dei pareri delle Commissioni parlamentari sugli schemi dei decreti. In ogni caso, un risultato è acquisito. Per l’opinione pubblica, grazie anche al dibattito di questi mesi, l’articolo 18 non è più un tabù: come è stato cambiato due volte nell’arco di un biennio, così potrà esserlo ancora in futuro.

Jobs Act, l'unica certezza è che l'articolo 18 non è più un tabù

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