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di Rocco Buttiglione

Infuria il dibattito sull’articolo18. L’ importanza pratica di questa norma non è molto rilevante ma il suo valore simbolico è elevato e non va sottovalutato. Bisogna vedere le buone ragioni degli uni e degli altri per poi cercare, se possibile, un punto di incontro.

Il punto di vista liberale

Per i liberali il lavoro è una merce che si compra e si vende liberamente sul mercato, come tutte le altre. Il datore di lavoro deve potere liberamente disporre della forza lavoro della sua azienda per poter realizzare combinazioni produttive che abbiano successo. Se intuisce che la domanda dei beni della sua azienda si restringe deve essere libero di licenziare i lavoratori in eccesso. Se un lavoratore non si inserisce bene nell’ambiente di lavoro ed è causa di problemi, l’imprenditore deve essere libero di licenziarlo. Soprattutto adesso, in tempi di concorrenza esasperata, si salva chi intuisce ed anticipa gli andamenti del mercato. Quindi i liberali rivendicano piena libertà di licenziare. Essi fanno notare, inoltre, che più facilità nel licenziare significa probabilmente anche un maggior numero di assunzioni. Se so che sarà difficile o impossibile licenziare in molti casi preferirò non assumere. L’abolizione dell’art. 18 significa dunque, in prospettiva, un aumento dell’occupazione. Il capitalismo è superiore a tutte le altre forme di organizzazione del lavoro umano proprio perché in esso si cambia continuamente la combinazione dei fattori produttivi alla ricerca di soluzioni nuove e più efficienti, più produttive e più competitive. Anche il lavoro è un fattore produttivo e se esso non è pienamente flessibile l’intero processo che ricerca soluzioni più efficienti ne verrebbe ostacolato. Il motore del processo è la ricerca di un maggiore guadagno dell’imprenditore ( l’odiato profitto) ma in un sistema di mercato efficiente il profitto si ottiene massimizzando al tempo stesso la soddisfazione dei consumatori ed il benessere generale. Se però adesso nove persone fanno il lavoro che prima si faceva in dieci il risultato è che nove saranno più ricche e più felici ed una sarà disoccupata. Di questo i liberali non si preoccupano molto. In un mercato perfetto il disoccupato troverà presto un lavoro perché i nove che hanno mantenuto il lavoro e adesso sono più ricchi (ed i consumatori che adesso sono anch’essi diventati più ricchi perché una parte dell’ aumento di produttività si trasferisce sui prezzi ed essi possono avere le stesse merci di prima ad un prezzo più basso e vedono quindi crescere la propria capacità di consumo) spenderanno il loro reddito aggiuntivo per soddisfare nuovi bisogni ed il disoccupato verrà impiegato per soddisfare questi nuovi bisogni.

Il punto di vista socialista

I socialisti obiettano che in questo modo il lavoro è trattato semplicemente come una merce. Il lavoro però è la vita dell’uomo che lavora ed insieme con il suo lavoro anche il lavoratore diventa una merce. La sua vita importa ed ha rilievo solo in quanto egli partecipa alla produzione delle merci. Se il lavoratore diventa disoccupato la sua intera vita perde di valore e non interessa a nessuno. Il vincolo della comunità umana per cui “homo homini res sacra” (l’uomo è per l’altro uomo una cosa sacra) si dissolve. L’uomo è rilevante per l’altro uomo solo in quanto produttore di merci e non in forza della sua dignità ( sacralità). Il disoccupato vive in effetti l’esperienza amarissima della irrilevanza sociale, del non esistere per gli altri, della alienazione. Descrive molto bene questa esperienza di alienazione ( meglio ancora di Marx) T.S.Eliot nel suo Canto dei Disoccupati: … La nostra nascita non è salutata. La nostra morte non è registrata dal Times”.

L’art. 18 è stato vissuto dal movimento sindacale come una liberazione del lavoratore da questa condizione di alienazione. Marx pensava che la liberazione potesse venire dalla proprietà comune dei mezzi di produzione. Con l’art.18 la liberazione viene dalla proprietà del posto di lavoro da parte del singolo lavoratore. Non è più una merce liberamente comprabile e vendibile ma un essere umano. Per questo molti nel sindacato vedono nell’ art.18, come in generale nello Statuto dei Lavoratori, una salvaguardia fondamentale della dignità dei lavoratori. Non dimentichiamo che lo Statuto dei Lavoratori fa parte di quel grande compromesso sociale attraverso il quale sono state sconfitte le Brigate Rosse e si è consolidato l’appoggio del Partito Comunista allo stato democratico. Quel compromesso ha avuto un carattere materialmente costituzionale e questo spiega la reazione viscerale del sindacato (meglio: della parte più arretrata del sindacato) ed il motto “l’art.18 non si tocca”. Quanto alla convinzione liberale che il lavoratore disoccupato trovi necessariamente un nuovo posto di lavoro la sinistra (con i keynesiani) replica che questo sarà certo vero in un mercato perfetto e nel lungo periodo ma i mercati reali non sono perfetti ed i lavoratori vorrebbero vivere nel breve periodo. Se la razionalizzazione garantisce maggiore ricchezza nulla garantisce che questa maggiore ricchezza si spenda creando un posto di lavoro in Italia piuttosto che in Cina (i consumatori potrebbero spenderla per comprare prodotti cinesi) o creando posti di lavoro in settori merceologici a cui il disoccupato, dato il suo patrimonio di conoscenze professionali può accedere. Il mercato si amplia ma il disoccupato può benissimo restarne fuori. Il testo integrale è disponibile sul sito della fondazione Fede e Scienza

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