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Giorni addietro una vecchia canzone del 1979. Il tiolo era “La crisi” di Ivano Fossati. Mi rendevo conto di quanto fosse nel nostro Paese ricorrente il concetto di disagio elevato dei cittadini dettato dalle condizioni politiche ed economiche. “La crisi ci segue come un granchio che non ci molla più. Noi non ce la facciamo più”. E’ ciò che diceva allora il patron de “La mia banda suona il rock”.

Il non potercela fare è la preoccupazione che governa le menti, sino a determinare nei più deboli gesti irresponsabili, di cui sono piene le cronache. E’ comunque ciò che tutti pensano, affollati come sono da problemi invalicabili, sia ordinariamente che ricorrendo a grandi sforzi leciti. La crisi mangia ogni possibile voglia di fare; sottrae le forze per ricominciare; induce ad urlare basta a chiunque, rendendo forti i mercenari del consenso, sempre pronti a prometterti la soluzione personale.

Il lavoro è il peggiore e più attuale “passato remoto”: ei fu! In quanto tale, costituisce il peggiore sintomo della crisi che incombe sui cieli del Mezzogiorno. Il tutto con nessuna speranza all’orizzonte, considerata l’occupazione a sistema che si è fatta in questi anni del posto pubblico da parte della politica violenta (rectius, dei violenti della politica) e di quello privato non più garantito dagli imprenditori screanzati, spesso intermediari finanziari della politica che domina (rectius dei dominatori della politica).

L’assistenza sanitaria è anche essa assente senza giustificazione. Una assenza troppo tollerata perché sconosciuta, specie nelle regioni del sud. Ciò in quanto goduta per via mediata, attraverso l’intercessione, per esempio, della cugina dell’amante del vicino di casa dell’infermiera che conta nel rintracciarti il posto letto, altrimenti perennemente indisponibile. Un fenomeno vissuto in quella logica perversa fondata sulla sanità ospedalocentrica che ha distrutto tutto, anche quel poco che vi era di buono intorno, residuato dal precedente sistema mutualistico che, in una con le condotte mediche, aveva creato un minimo di rete assistenziale da garantire alle difficili orografie. In assenza dell’assistenza territoriale che ci vorrebbe tutto è andato a finire, ovviamente, sull’ospedale. Quando questo è aggredito dall’incuria, dall’incapacità manageriale e da un sistema che impedisce il minimo del turnover, tutto va in tilt. Poveri noi!

A ben vedere due diritti costituzionali, fondamentali per il vivere sociale, resi carta straccia da una gestione della res pubblica sino a qualche tempo inimmaginabile per un Paese evoluto dell’Occidente.

Il diritto al lavoro oramai sconfitto senza rimedio obbliga i giovani ad emigrare dai propri affetti e dalla propria terra. Induce i tantissimi meno giovani, anche essi espulsi dal lavoro dalle deficienze del mercato ovvero dalle promesse clientelari non mantenute, ad impazzire spesso per l’incapacità di assicurare il pane ai loro figli.

Il diritto alla tutela della salute una presa per il sedere nelle regioni commissariate e in piano di rientro, per usare un eufemismo.

E’ vero entrambi i diritti sono scritti e assicurati dalla Carta costituzionale, tanto da fare supporre erroneamente a tanti, visti i risultati traguardati al riguardo, che la stessa possa contenere altrettante fesserie in tema di diritti e libertà garantiti. Ovviamente non è così. La Costituzione è uno strumento da consegnare nelle mani di abili attuatori legislativi, che da decenni latitano nel nostro Paese.

In relazione alla sanità ci sono i Lea (dicunt). Quelli nati a cura del legislatore del 1978, che si è reso protagonista della riforma istitutiva del Servizio sanitario nazionale, di fatto la migliore organizzazione salutare al mondo (sulla carta). Uno strumento di riferimento  quali-quantitativo dell’assistenza costituzionalizzato con la revisione del Titolo V della Carta del 2001. Con questo, i Lea – che sono la categoria specializzata dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti sociali individuati nel novellato testo dell’art. 117 comma 2, lettera m – si sono posti a baluardo dell’esigibilità del diritto alla salute da parte della collettività. Da rendere quindi esigibili su tutto il territorio nazionale.

Dunque, con i Livelli essenziali di assistenza dovremmo strare tranquilli!  Ma di cosa stiamo parlando?

L’assistenza reale nel sud, con la Calabria prima in classifica del peggio, è rasa al suolo, con i Lea cancellati dal sopruso, dall’arroganza e dall’ignoranza gestoria. Accade come gli orari ferroviari quotidianamente cancellati e i voli di linea annullati: tutti a terra senza alternative, lasciati in preda alla disperazione!

Nella sanità meridionale sono migliaia i poveretti ridotti a stare quotidianamente, da ricoverati, su di una barella nei corridoi con i parenti intenti a pulirli, a dargli da mangiare ciò che passa il convento, a comprarsi le medicine da soli nella più vicina farmacia. E’ ciò che accade a tanti nostri corregionali ammalati, anche gravissimi, disseminati in quelle che erano un tempo fa i posti letto ospedalieri, ridotti all’osso da un piano di rientro che rappresenta l’esatto contrario di ciò che serve.  Una situazione di disagio assoluto risolta (si fa per dire) dal fai da te, assicurato dalle turnazioni familiari, dalla generosità ineguagliabile dei medici “sopravvissuti” e, per chi è credente (ma anche per gli altri) dai Santi in paradiso (di quelli veri però e non già di quelli di cui sono in troppi alla ricerca per fare soprattutto carriera).

E i LEA? Ma di cosa stiamo parlando?

sanità

Gli effetti della crisi sul sistema sanitario

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