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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’analisi di Gianfranco Morra uscita oggi sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Per mezzo secolo nella cultura italiana c’è stato solo Marx. Caduto il comunismo, è scomparso del tutto. I nipotini di Gramsci non lo hanno «messo in soffitta», lo hanno sepolto nei sotterranei della storia e della coscienza. Un grosso errore. Marx è stato un grande pensatore, che purtroppo ha mescolato la ricerca scientifica con il fideismo rivoluzionario. Le sue teorie sono datate «metà Ottocento», ma alcune intuizioni rimangono valide e utili. Come quella sul «proletariato degli straccioni» (Lumpenproletariat), che ci aiuta a capire il conflitto attuale tra le due anime della sinistra: quella moderata e socialdemocratica da un lato, quella oltranzista e distruttiva dall’altro. Il sottoproletariato, per Marx, è composto di vagabondi, galeotti, evasi, imbroglioni, bari, accattoni, da tutta la feccia della società. Nella sua ricerca storica su Le lotte di classe in Francia: 1849-50 usa una parola italiana «lazzaroni». Per Lenin sono «servi dei padroni, senza idee né princìpi», per Stalin «fannulloni, vagabondi, questuanti, senza partito».

Più volte di questi «proletari antiproletari» si sono serviti i poteri reazionari contro il liberalismo e il socialismo (come Napoleone III); o la classe borghese per sterminare in Francia la Comune del 1870; o i padroni spodestati del Regno delle Due Sicilie per la guerriglia contro gli occupanti piemontesi. Per non dire del fascismo e del nazismo. Anche l’epoca nostra ha il suo sottoproletariato: glorificato da Pasolini, che spesso lo frequentava e ne fu la vittima, con il film «Accattone» (1961), primo dei suoi e forse il migliore. A fine agosto, alla mostra del cinema di Venezia, Franco Maresco ha presentato un visionario e stanco «Belluscone», nel quale Silvio sottoproletarizza gli italiani con i suoi ideali di successo, danaro e sesso.

Viviamo in un’epoca molto diversa da quella di Marx, ma forse è possibile fare un uso accorto del suo concetto di «sottoproletariato» riferendoci alla lotta dei lunghi coltelli che contrappone le due anime della sinistra italiana. Da un lato Renzi, col suo modello di una sinistra adeguata ai tempi, una sorta di socialismo alla Blair, con forti innesti di cristianesimo sociale; con il rifiuto dei miti della lotta di classe e della rivoluzione sociale; con il tentativo di uscire dalla crisi trovando una piattaforma comune ai produttori di ricchezza e benessere (imprenditori e lavoratori, non più nemici ma collaboratori, pur con differenze e anche contrasti).

Dall’altro lato vi sono due sinistre, diverse ma per ora unite nella opposizione al «neothatcheriano». Una è quella del sottoproletariato, che vive senza lavoro produttivo alle spese dello Stato: emigrati clandestini e zingari, lavavetri e vucumprà, centri sociali e studenti teppisti, tossicodipendenti e black bloc. L’altra è quella delle categorie che più risentono della crisi in atto: disoccupati, pensionati, metalmeccanici, precari. L’ala ultrasinistra del Pd si erge a difensore di entrambe.

Ma come, non è forse giusto e doveroso aiutare delle categorie così bisognose? Senza dubbio, ma con qualche precisazione. Sui mezzi e sui fini. I mezzi non possono essere né le imboscate parlamentari, né gli scioperi politici, né la minimizzazione delle distruzioni e dei saccheggi, né la sistematica degradazione delle forze dell’ordine, né l’utilizzazione dei sottoproletari per creare disordini.

Quanto ai fini, non è difficile accorgersi che, nella difesa dei sottoproletari, di quelli che lo sono per scelta loro e di quelli che la crisi ha prodotto (non solo operai, ma spesso ancor più ceti medi produttivi e intellettuali) si impegnano due gruppi distinti: i «giovani ideologi» (Cuperlo, Fassina, Civati), che rispolverano obsolete e deleterie utopie condannate dalla storia, e la «vecchia guardia» (D’Alema, Bindi, Bersani, Camusso, Landini), che difende soprattutto gli interessi degli apparati del vecchio partito e dei sindacati, per riacquistare quel consenso dei cittadini, che ha largamente perduto e riprendersi così il potere contro l’usurpatore che li ha rottamati. In entrambi i casi non può esserci operazione più retriva. Sia l’ideologia comunista, sia lo strapotere invadente dei sindacati sono stati causa non secondaria della crisi economica che ci attanaglia.

Ma mentre in altre nazioni europee (Germania, Inghilterra, Paesi scandinavi) la sinistra, senza perdere la sua differenza rispetto alla destra, si è posta sulla via fertile del riformismo e della liberaldemocrazia, contribuendo così al rilancio economico e sociale dei loro paesi, da noi sia gli «ottimati» che i «consequenziari» del Pd, in alleanza con i sindacati preistorici, continuano nel loro sinistrismo deleterio, servendosi come forza d’urto contro l’innovazione delle diverse categorie di sottoproletariato. Che inducono a protestare con ogni mezzo. Quello che fa il governo Renzi non va bene, gridano. Ma su proposte diverse per uscire dalla crisi stanno zitti. Sanno solo giocare all’ «anti», prima di Berlusconi, ora di Renzi.

La via règia passa attraverso una duplice azione. Senza dubbio vi sono delle necessità urgenti cui occorre dare una risposta. Le classi povere vanno aiutate subito. E qualcosa in tal senso è stato fatto. Troppo poco, forse, ma ogni provvedimento urgente deve tener conto di un progetto a lunga scadenza, che non distrugga il tessuto produttivo e aumenti la fiducia degli investitori sulla solidità della nostra economia. Perché abbiamo di fronte una crisi epocale, alla quale solo delle profonde riforme economiche e istituzionali possono dare una risposta. Di certo non lo possono coloro che puntano sul sottoproletariato: né i vecchi boiardi col loro sdegno interessato, né i giovani impazienti col loro ideologismo astratto.

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