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La cocciutaggine dei filosofi qualche volta non si arrende neppure di fronte alle più sonore smentite della storia. E tanto più sono autorevoli, tanto più sono cocciuti. Quella che Giambattista Vico chiamava la “boria dei dotti” è tale da spingerli a ritenere non che il pensiero debba adattarsi alla realtà, ma la realtà al loro pensiero.

E così Jürgen Habermas, il maggior filosofo tedesco e uno dei maître-penseurs viventi, dopo averci propinato per anni la retorica occidentale di un astratto universalismo che volente o nolente annulla le differenze, dedica le sue ultime energie a riscaldare la stessa minestra con riferimento all’Europa, “una ed indivisibile”, come la Santa Madre Chiesa. Beninteso, che questa Europa sia in crisi lo sa pure lui e lo scrive anche, ma senza fare alcuna autocritica rispetto al passato. L’Europa è in crisi? Sì, ebbene se ne esce semplicemente con “più Europa”. È come voler curare un drogato offrendogli più droga. È come lo struzzo che nasconde la testa, senza rendersi conto che è proprio grazie a questo slogan che ci troviamo di fronte ad una crisi che non è più soltanto una crisi economica, ma una crisi di legittimità che avvolge le istituzioni europee e che è diventata evidente dopo le ultime elezioni europee, con la creazione di un terzo polo caratterizzato in senso decisamente populista e euroscettico.

Il suo ultimo libro è stato subito prontamente tradotto in italiano (come tutti gli altri del resto), ma della Streeck-Habermas-Debatte si è parlato in Italia poco e soprattutto solo per dare ragione a Habermas. Quest’ultimo, si sa, appartiene alla categoria degli “intoccabili” e quindi c’è semmai da stupirsi che in Italia sia stato tradotto anche il libro di Wolfgang Streeck, che fa piazza pulita di tutte le illusioni sulla UE che da decenni Habermas continua ad alimentare. E lo fa da posizioni di “sinistra” suscitando pertanto lo sdegno del filosofo della sinistra per eccellenza (anche nostrana). L’analisi di Streeck è lucidissima e spietata nei confronti di un’Europa ormai divisa dalla moneta unica tra Stati deboli (debitori) e Stati forti (creditori) e tenuta insieme da un’entità transnazionale, l’Unione Europea, il cui unico scopo è quello di far restituire il debito ai creditori, senza peraltro far fallire il debitore, poiché altrimenti ci rimetterebbe pure lui. Come alternativa l’autore propone non l’abolizione dell’euro ma la sua coesistenza come moneta comune accanto al ripristino, ritenuto necessario, delle valute nazionali. Il completamento dell’Unione monetaria invece per Streeck “significherebbe la fine della democrazia nazionale in Europa -, e con essa la fine dell’unica istituzione che potrebbe servire per difendersi dallo stato consolidato”. E aggiunge: “Se le differenze che si sono sviluppate tra i vari popoli europei sono troppo grandi per venire integrate in una democrazia comune, allora ci si può rivolgere, in mancanza di meglio, alle istituzioni che rappresentano tali differenze, come fossero dispositivi frenanti installati su un’auto lanciata in discesa verso uno stato fondato sul mercato, unico e privo di democrazia. E finché non esiste una soluzione di prima scelta, quella di seconda sarà la migliore disponibile” (p. 217).

Proprio queste conclusioni scettiche su una Europa che sacrifica i popoli per salvare una moneta infastidiscono Habermas, che ci pone di fronte alla seguente “drammatica alternativa”: “o danneggiamo in maniera irreparabile, rinunciando all’euro, il progetto dell’Unione europea che abbiamo perseguito nel dopoguerra, oppure approfondiamo l’Unione politica – a partire dall’eurozona –, in maniera tale da dare legittimità democratica, oltrepassando le frontiere, ai trasferimenti di valuta e alla messa in come dei debiti”.

Sembra quasi che Habermas voglia porci di fronte ad un aut-aut esistenziale, kierkegaardiano: in realtà dobbiamo semplicemente iscrivere Habermas fra i fautori “senza se e senza ma” non solo dell’Unione Europea attuale, ma del suo peggior prodotto: la moneta unica, che è una se non la principale causa dell’attuale crisi. Per Habermas “indietro non si torna”, sembra di sentir parlare Mario Draghi. La “seconda cosa” di cui egli parla: “trasferimenti di valuta e messa in comune dei debiti” sono solo vaneggiamenti di un filosofo che ha ormai perso il contatto con la realtà, o meglio. La politica si nutre certo di ideali, ma deve fare i conti con la realtà e chi oggi ha ancora il coraggio di parlare di “solidarietà europea”, dopo il massacro a cui l’Unione Europea ha sottoposto intere sue popolazioni, per difendere l’idolo di una moneta, merita solo una risposta: “Wer Solidarität sagt, will betrügen”, “chi dice solidarietà vuole ingannare”.

Il progetto dell’Unione europea come è stato costruito da Maastricht in poi, va ripensato alla radice. Se vogliamo ricostruire l’Europa dobbiamo prima smantellare una moneta che invece di unire i popoli europei sta scavando tra di loro un solco incolmabile. Non c’è stata alcuna solidarietà nei confronti della Grecia, la cui popolazione è stata lasciata morire, e ora con l’appoggio dei governi di sinistra è stato eletto Juncker (un nome che è tutto un programma) a Presidente della Commissione europea.

Questa è oggi l’Unione europea, bellezza!

Anche Habermas alla Gran Corte dell’Euro

La cocciutaggine dei filosofi qualche volta non si arrende neppure di fronte alle più sonore smentite della storia. E tanto più sono autorevoli, tanto più sono cocciuti. Quella che Giambattista Vico chiamava la “boria dei dotti” è tale da spingerli a ritenere non che il pensiero debba adattarsi alla realtà, ma la realtà al loro pensiero. E così Jürgen Habermas,…

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