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Forse questo sarà un post controcorrente per Formiche, data la sua natura liberal o lib-dem, se così si vuol collocare questo spazio sul web, comunque non vicina ai dibattiti della sinistra che nel corso del tempo s’è definita sinistra radicale. Ma questo non per demerito di Formiche anzi proprio per quello che si scriveva prima, per la sua natura e la sua impostazione che sono quantomeno distanti dalla galassia della cosiddetta sinistra radicale.
Un post controcorrente, dunque, perché è da mesi, anni che si parla di articolo 18 e Statuto Dei Lavoratori.
C’è chi ne vorrebbe l’ammodernamento in senso liberista, in funzione del mercato (l’Italia è cambiata, l’Europa è cambiata, quella è una Carta vecchia); c’è chi ne vorrebbe addirittura l’abolizione e c’è chi ne vorrebbe l’implementazione di alcuni punti perché nel tempo lo si è snaturato.
Inutile dire che, sebbene queste tre macroaree siano state un po’ forzate e un po’ tagliate con l’accetta da chi scrive, generalmente e per grandi linee le posizioni attorno a questo tema sono più o meno quelle sopra indicate.
Negli ultimi giorni si sta assistendo alla riproposizione, da parte di buona parte della stampa cartacea, radiofonica e televisiva, di un fatto che la politica italiana si trascina dietro da tempo.
Lo Statuto dei lavoratori: “in realtà lo votò lo Psi e il Psdi (che, almeno alla Camera, formavano il Psu – Partito Socialista Unitario nda) con assieme il Partito Repubblicano, la Dc e il Partito Liberale.
La storia è stata tirata in ballo dopo l’evento della Leopolda a Firenze, organizzata da Matteo Renzi e dal Partito Democratico.
“Il posto fisso non esiste, è una cosa antica” e poi si ricordi che “negli anni ’70 chi si astenne sullo statuto dei lavoratori fu la sinistra.
E via col dibattito: si riparte con la giostra di nomi illustri che, almeno coloro che sono ancora vivi, tornano a farsi sentire.
Uno tra questi è Valdo Spini, componente storico del Partito Socialista Italiano e ora presidente dell’Associazione delle Istituzioni di Cultura italiane, intervistato da Radio Radicale afferma: «Lo statuto dei lavoratori ha avuto l’impulso fondamentale del Ministro Giacomo Brodolini, socialista. Poi purtroppo egli è deceduto» e il provvedimento è stato portato avanti dal Ministro democristiano «Donat-Cattin che, così come Brodolini aveva avuto esperienza di sindacato nella Cgil, egli l’aveva avuta nella Cisl».
Ai microfoni di Palazzolo, Spini ha proseguito dicendo che: «In quel periodo il Partito Comunista trovava sempre il modo per trovare una differenziazione, anche se il Partito Socialista faceva cose egregie; se Renzi faceva riferimento al Partito Comunista – dunque – ha ragione. Penso – però – che si possa, a buon diritto, dire che il Psi faceva parte della sinistra italiana, quella riformista e che essa fu l’artefice dello Statuto dei Lavoratori».
Certo, riprendere questioni di tale portata a distanza di anni è sempre ostico, calcolando anche i cambi di fasi politiche che si sono succeduti molto più rapidamente di quanto si pensasse.
Il punto però, senza addentrarsi nelle viscere della questione – anche perché per un fattore anagrafico mi è impossibile -, è che, come al solito, se un una parte di Storia viene trascurata e lasciata silente, magari con un mantello sopra che l’ha ben coperta agli occhi di molti, è facile poter tradurre quella parte che si stava mettendo al riparo. Uscirsene, magari anni dopo, scoprendo il mantello davanti a tutti, nonostante si sia ancora in un luogo buio. Quindi interpretare arbitrariamente ciò che l’oggetto, liberato dal mantello, porta con sé.
In sintesi: sulla questione annosa di chi ha votato e chi si astenne in merito, si illumina solo una parte di Storia, mentre l’altra viene lasciata volutamente nell’ombra.
L’Unità del 15 maggio 1970 titolava in seconda pagina: «Lo statuto dei lavoratori definitivamente approvato» e, come occhiello, «il PCI si è astenuto per sottolineare le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica».
E’ fin troppo facile prendere una parte di Storia, in maniera del tutto arbitraria, e tradurla per un proprio discorso politico a seconda di quale piega quest’ultimo debba assumere nei confronti dell’uditorio e, non solo, nei confronti dell’opinione pubblica.
Il Pci, dunque, si astenne perché quello Statuto era, così come stato definito in passato, «gioco al ribasso».
Sicuramente nei prossimi giorni si continuerà la solfa del Pci che si astenne che poi diventerà il Pci votò contro fino ad arrivare al NEL PCI NON C’ERANO COMUNISTI!, ma questo rientra nel quadro della mancanza di memoria storica di un Paese che, sempre di più, dimentica quello che è e che è stato per affidarsi alle braccia di chi, per la verità, non sa dove lo condurrà.
Per quel popolo che ha perso la propria memoria della Storia, la traduzione di quest’ultima sarà più facile che in altri casi: gli ostacoli sono già caduti da tempo, gli anticorpi non svolgono le loro funzioni e ogni interpretazione è libera di fare breccia tra i cuori ignari – e forse anche un po’ complici – di qualcuno che quei tempi li ha vissuti.

Quando la Storia viene tradotta

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