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Da una parte si apre, dall’altra si chiude. L’unico filo conduttore è, però, la paura. Quella di perdere anche gli ultimi residui di fiducia verso la propria economia. E così in Cina va in scena l’ennesima operazione a dir poco ambigua, nella speranza di tamponare un’emorragia di capitali che sta lentamente indebolendo le principali piazze finanziarie del Dragone. Sono mesi, ormai, che la Repubblica Popolare assiste attonita alla fuga di investitori, risparmiatori, capitalisti di piccola, media e grande taglia. Un esodo che la seconda economica globale non può permettersi, specialmente se si vuole rimanere al passo con l’India e, soprattutto, gli Stati Uniti.

E allora, ecco la soluzione. Aprire al mercato stranieri il più grande settore industriale della Cina, quello dei servizi. Che, insieme al mattone, che vale un terzo del Pil cinese, rappresenta la seconda gamba dell’intera economia nazionale. Dal momento che all’estero sembrano aver poca voglia di investire in Cina, ecco che creare dei varchi in un comparto così strategico può essere una mossa azzeccata per richiamare in patria i capitali fuggiaschi.

Il piano è stato approvato dal partito nel fine settimana ha come punto di partenza l’allineamento delle regole del comparto servizi cinese a quelle occidentali. Finora, infatti, la differente regolamentazione aveva di fatto tenuto lontano le imprese straniere, creando una sorta di barriera naturale. Dopo questo primo allentamento, altre misure prevedono per esempio l’eliminazione parziale del tetto agli investimenti nel settore. Se un’azienda straniera dovesse decidere di entrare nel mercato, infatti, non avrebbe più l’obbligo di mantenersi al di sotto di una determinata quota, come finora accaduto.
Attenzione, questa è solo una parte della vicenda. Se da una parte infatti il governo cinese ha deciso di aprire il settore dei servizi, dall’altra è pronto a restringere le maglie della Borsa. Che cosa significa. In altre parole, gli azionisti delle maggiori società quotate sui listini di Shanghai e Pechino, non potranno liberarsi delle loro stesse azioni, magari vendendole a qualche predone straniero. Come racconta Reuters, le due Borse cinesi hanno approvato una serie di regole, che impediscano la fuoriuscita di azioni dai listine, mediante un rally al ribasso, per evitare il deprezzamento delle società e la caduta degli indici. Il marchingegno sembra aver funzionato, tanto che nel solo mese di novembre la Borsa di Pechino ha guadagnato il 46%.

Peccato che agli investitori all’estero possa arrivare un messaggio poco rassicurante. Come è possibile puntare su una Borsa che esclude la vendita delle azioni a operatori stranieri? Chissà se è davvero una casualità la classifica di Nikkei, appena aggiornata, sulla base del materiale pubblicato dalla Commissione centrale per l’ispezione disciplinare del Partito comunista cinese, il potente braccio armato della politica anti-corruzione e nella quale si segnalano 67 funzionari finanziari sotto indagine quest’anno, rispetto ai 58 in tutto il 2022. Un numero più che quadruplicato rispetto al totale del 2020.

Borsa e servizi. La Cina da una parte apre, dall'altra chiude

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