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Nonostante la crisi economica abbia manifestato i suoi effetti sulle performance delle aziende mondiali, nonostante il clima di incertezza e la difficile ripresa, è sempre alta l’attenzione della maggior parte dei manager alla sostenibilità e alle conseguenze sociali e ambientali del business. Continua a crescere infatti il numero di aziende che ritiene imprescindibile inserire nelle proprie strategie azioni che mirino a migliorare la situazione delle comunità e dell’ambiente in cui operano. Non ci sono ombre sul pieno commitment dei capi azienda, nemmeno in un periodo di spending review.

E’ quanto evidenzia un recente studio condotto dall’Economist Intelligence Unit, che testimonia anche che stiamo assistendo ad un lento e inesorabile cambiamento nella definizione delle strategie aziendali con la nascita di nuovi business model capaci di assicurare la sostenibilità a lungo termine. L’idea alla base di questo nuovo approccio risiede nella definizione che si dà della sostenibilità come capacità di “rispondere ai bisogni presenti, senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Lo studio “New Business Models – Shared value in the 21st century” propone i risultati della ricerca a cui hanno partecipato 285 top manager che operano in Asia-Pacifico, Europa e Nord America. Oltre alla rilevazione via web dei questionari il report illustra i contenuti delle interviste dirette rivolte a otto esperti di questioni legate alla sostenibilità.

La percezione che i programmi legati alla sostenibilità siano una componente importante della competitività rimane forte: un numero crescente di aziende ha inserito, ormai stabilmente, nelle proprie attività pratiche ambientali, sociali e di governance. Circa due terzi degli intervistati (66%) ritiene che ci sia un legame diretto tra le performance finanziarie di lungo termine (5-10 anni) e l’impegno profuso dalle aziende nell’inclusione all’interno delle strategie di azioni per la sostenibilità. Un esempio positivo è rappresentato dal caso dell’azienda di cosmetici brasiliana Natura Cosmeticos che nel 1995 ha lanciato la linea di prodotti “Crer para ver” (credere per vedere) i cui proventi sarebbero stati destinati a progetti educativi. Da allora sono stati stanziati 5,1 milioni di euro in questo tipo di attività e l’azienda ha registrato una crescita dei ricavi senza precedenti. Tuttavia, come evidenzia lo studio, col diffondersi dei programmi legati alla sostenibilità e l’applicazione da parte delle aziende di misure ambientali, sociali e di governance, diminuisce il vantaggio competitivo di chi adotta queste pratiche. L’introduzione di vincoli legislativi rappresenta senza dubbio il principale impulso alla diffusione di questo tipo di pratiche. Basti pensare all’India dove lo Stato ha imposto alle aziende che operano nel settore metalmeccanico l’applicazione di misure per l’efficienza energetica.

Lo studio dell’EIU sottolinea come sia cresciuto il numero degli indicatori di performance utilizzati per evidenziare l’impegno profuso a tutela delle collettività. Il più diffuso, segnalato dal 39% delle aziende coinvolte, riguarda l’utilizzo dell’energie e delle risorse, seguito dal numero di incidenti sul posto di lavoro (32%), dal livello di rifiuti prodotti e il loro riciclo (30%), dalla presenza di donne nelle posizioni apicali (23%), dal verificarsi di episodi di corruzione (17%) e dall’emissione di CO2 (17%). Negli ultimi anni le aziende hanno iniziato a utilizzare nuovi metodi di analisi con l’obiettivo di combinare aspetti economici e finanziari con quelli legati alla sostenibilità: il 15% delle imprese coinvolte infatti pubblica regolarmente un bilancio che integra i risultati finanziari con la performance della sostenibilità; in crescita rispetto all’11% del 2011. Tuttavia, esistono altri elementi legati alla qualità e all’attenzione che l’azienda pone al modo in cui opera che vengono sempre più presi in considerazione, come la scelta di operare in Paesi dove sono presenti dei regimi repressivi, il compenso corrisposto al management e le regole di governance. Alcune aziende si spingono oltre estendendo i criteri adottati anche ai propri fornitori. La multinazionale che produce abbigliamento sportivo Puma e il gigante della distribuzione USA Wal-Mart monitorano ad esempio direttamente le performance relative alla sostenibilità delle aziende fornitrici.

Le strategie delle aziende iniziano a spostarsi, dunque, verso l’integrazione delle attività relative alla sostenibilità nei propri modelli di business per il raggiungimento di obiettivi di lungo termine, secondo un approccio che prende in considerazione il valore condiviso (Share Value), in grado di valutare cioè il vantaggio competitivo e i benefici per la società in cui operano. Più della metà degli intervistati (54%) ha affermato di aver elaborato negli ultimi tre anni un modello che assicuri la sostenibilità nel lungo periodo e la percentuale sale (63%) se si prende in considerazione coloro che hanno affermato di stare lavorando all’individuazione di nuove strategie. Una delle prime aziende ad aver applicato questo nuovo modello è Coca-Cola col progetto Coletivo per la formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro di giovani delle favelas in Brasile a rischio di esclusione. Ogni mese sono stati valutati quattro parametri per misurare il successo dell’iniziativa: l’occupazione, l’aumento dell’autostima dei partecipanti, l’attaccamento al brand e le vendite dei prodotti Coca-Cola. Si è trattato di uno dei primi casi di applicazione dei principi della Shared value in cui la strategia adottata dall’azienda non è stata considerata come una semplice attività filantropica, e quindi con effetti esclusivamente reputazionali, ma come un progetto in grado di influenzare significativamente aspetti sociali ed economici relativi al business.

I nuovi modelli di business per la creazione del valore condiviso

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