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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Alberto Pasolini Zanelli, apparso su quotidiano Italia Oggi.

Barack Obama torna in Irak. Gli dispiace molto, ma non aveva scelta. Gli spiace perché ama la pace, ma anche perché, così facendo, perde un altro pezzo della sua fama di profeta della pace. Fu una guerra in Irak, quella fermamente voluta da George W. Bush, a dare fama ad Obama che era un debuttante senatore appena arrivato da Chicago.

Fu quasi l’unico, Obama, a negare i crediti di guerra che, per il resto, il presidente Bush ottenne in misura plebiscitaria. La storia, si dirà, si ripete. Ma stavolta non proprio secondo la formula prediletta da Marx, prima come tragedia e poi come farsa, bensì come ripetizione di tragedie antiche in forme parzialmente nuove ma con le medesime vecchie radici. Sta succedendo, a fine estate 2014, centesimo anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale, all’America, che, un secolo fa, aspettò tre anni a scendere in campo. Il bis di Obama arriva 11 anni dopo la fatale decisione di Bush, fatale soprattutto perché l’errore più grave della sua carriera, quella che tuttora affossa la memoria della sua era alla Casa Bianca.

Bush reagì a un attacco del terrorismo mediorientale al cuore stesso dell’America e lo fece con passione, sofferenza, ira. E poca riflessione. Il giovane senatore Obama sapeva che era uno sbaglio e lo disse subito, inascoltato. Non prevedeva che, proprio a lui, sarebbe toccato imitare Bush. Però aveva già allora una ideologia. Che comprendeva l’aspirazione a un rinnovamento morale dell’America ma anche, assieme a certe proposte sull’economia, dati storico-militari.

Tre considerazioni: 1) la scomparsa dell’Unione sovietica toglieva credibilità al sistema delle due superpotenze e, dunque, all’equilibrio del terrore. 2) L’elemento decisivo della gara era ora completamente l’economia. 3) E infine lo garantiva uno sviluppo tecnologico fresco fresco, che sarebbe sfociato nell’invenzione dei droni, aerei senza pilota che garantivano dunque che non ci sarebbero state perdite, ciò che avrebbe diminuito il principale motivo dell’opposizione del popolo americano alle guerre.

Queste tre intuizioni avrebbero finito per determinare la nuova politica estera Usa. Ma anche a rendere possibile, otto anni più tardi, a Obama di arrivare alla Casa Bianca, proprio come successore diretto di Bush.

Quando ciò accadde, il neopresidente scoprì che il suo compito sarebbe stato più duro del previsto, soprattutto perché i repubblicani in Congresso scelsero subito la loro strategia parlamentare: l’ostruzionismo senza eccezioni. «Dobbiamo impedirgli di governare», dichiarò francamente, o sfacciatamente, il loro massimo stratega. Ciononostante, Obama fu poi rieletto con un margine molto più largo di quanto si potesse prevedere, grazie ai risultati discreti della sua gestione economica e nonostante certi errori del primo quadriennio (aveva anticipato troppo la riforma sanitaria trascurando, politicamente, le angosce immediate del deficit e della disoccupazione). Obama, insomma, si era comportato da presbite, così come Bush era stato miope. E si convinse ancor più di averci visto giusto, soprattutto nella visione del futuro, che prevedeva una competizione decisiva tra Stati Uniti e Cina e dunque ridimensionava il ruolo dell’Europa e soprattutto del Medio Oriente.

La visione di Obama includeva dunque un graduale ritiro dell’apparato bellico americano dall’Europa e soprattutto dal Medio Oriente. Egli rifiutava, inoltre, di dividere il mondo in buoni e cattivi. Considerava i Paesi, le alleanze e perfino il terrorismo come meccanismi complessi mossi dal potere e dalla paura più che dalle ideologie. I nemici esistono, ma è più produttivo indebolirli giocando sulle loro divisioni interne che non trattarli come monoliti da distruggere, il che rafforzerebbe i loro legami.

Quanto al mondo islamico, Obama distingueva sempre fra arabi e iraniani, fra sunniti e sciiti, fra musulmani dell’Africa e dell’Asia, fra integralisti e nazionalisti laici. Pur nella fermezza dei principi, egli riservava il posto preminente al dialogo rispetto allo scontro, agli argomenti politici e ideali rispetto alle armi. All’Islam egli aveva riservato una frase che i più avrebbero interpretato come un’apertura: «Con il mondo musulmano cerchiamo una strada nuova, basata sull’interesse reciproco e sul reciproco rispetto».

Stessi propositi egli aveva poi nei riguardi dell’Europa e in particolare della Russia ex nemica. Come si vede, Obama era, fin da allora, buon pensatore e cattivo profeta: da quando alla Casa Bianca risiede un premio Nobel per la pace, il mondo non è mai stato coinvolto in tanti conflitti contemporanei. Per cominciare, la Russia non avrebbe dovuto reagire fin troppo prontamente al tentativo dell’Occidente di attrarre l’Ucraina nella propria sfera di interessi. Putin ha cercato invece di giocare d’anticipo e così in Ucraina è rinata una guerra fredda quasi calda. Le frontiere disattese sono ridiventate attualità. Si è ripresentato il problema se la Russia abbia o no diritto, e l’America e l’Europa convenienza, a lasciare che Mosca rafforzi la sfera di influenza ai suoi confini. La crisi in Ucraina nasce dalle ambizioni di Putin quasi quanto dalle illusioni dell’Occidente di imporsi definitivamente al Cremlino. La tentazione di poter piegare Putin con le sanzioni finanziarie trascura le armi della Russia nei confronti dell’Europa, specie quando monta il pericolo di una energetica mondiale. Quanto al Medio Oriente, la sparizione dell’Irak di Saddam Hussein avrebbe dovuto provvedere a che cambiasse tutto.

È successo, sta succedendo, invece il contrario: a barcollare sono le roccaforti del potere che Washington aveva installato. Insomma, doveva cambiare tutto e ci siamo accorti che forse è cambiato poco e in peggio. Saddam Hussein era un dittatore «laico» di tiepida confessione sunnita, antagonista da sempre dell’Iran sciita e del fondamentalismo islamico in genere. Anche per questo l’America fino a un certo punto lo aveva sostenuto. A quel punto, in Irak c’era un vuoto di potere e l’intero Medio Oriente, di conseguenza, era diventato più instabile, in modo ancora più complesso dopo il pot-pourri di iniziative che vanno sotto il nome di «Primavera araba» e che sono risultate nell’abbattimento di altri regimi, dall’Egitto alla Libia, mentre è in corso da tre anni un conflitto altrettanto e più sanguinoso in Siria.

In Egitto la caduta del dittatore filo occidentale Mubarak non ha aperto la strada alla democrazia, bensì prima alla presa del potere degli integralisti e poi di rimbalzo a una nuova dittatura militare. Più a Ovest, l’eliminazione fisica di Gheddafi, compiuta con la complicità aperta degli occidentali, ha fatto piombare la Libia in un caos dominato dalle milizie concorrenti. «Liberato» da Saddam Hussein, l’Irak è in condizioni anche peggiori, sconvolto di nuovo da una guerra che si è estesa a tutti i suoi vicini e da questi viene nutrita. I rivoluzionari siriani, per tre anni aiutati dall’Occidente per far fare ad Assad la fine di Saddam, sono da tempo in ritirata sia di fronte alla controffensiva del regime di Damasco, sia perché gradualmente passati sotto la leadership dei jihadisti istruiti e ispirati da Osama Bin Laden. La Siria dittatoriale e nazionalista era stata alleata degli Usa nella prima Guerra del Golfo. Oggi dai suoi deserti è partita la nuova invasione dell’Irak in nome dell’oltranzismo sunnita e con l’obiettivo della rifondazione del Califfato.

E Obama non poteva non intervenire, anche se molto probabilmente ha tutto da perdere. A spingerlo sono quei gruppi di interesse politicamente all’opposizione, che non gli riconoscerebbero comunque eventuali successi. E rimane aperto, soprattutto, il dilemma che egli ha riconosciuto forse per primo: il paradosso delle «guerre ineguali» e della loro logica perversa. Manca la remora del nucleare e ne regna un’altra paradossale. Gli jihadisti sequestrano un civile e lo proclamano. Obama non può non reagire e ordina un bombardamento. I seguaci del Califfo, allora, sgozzano un secondo ostaggio. Obama ribombarda e così via. Nessuno osa fermarsi per primo. Gli americani hanno tanti aerei, tante bombe, tanti droni. La controparte dispone di tanti ostaggi.

Perché Obama e Bush hanno deluso in Irak

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