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Banali e persino penosi manipolatori d’anagrafe: così meriterebbero di essere chiamati Massimo D’Alema e quanti altri hanno accusato il segretario del Pd e presidente del Consiglio Matteo Renzi, fuori e dentro la direzione del loro partito, di imbrogliare carte e pubblico attribuendo 44 anni di età all’articolo 18 – quello sui licenziamenti-  dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Che fu approvato appunto nel lontano 1970 sotto un governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor, con Carlo Donat-Cattin, democristiano pure lui, alla guida del Ministero del Lavoro, succeduto al socialista Giacomo Brodolini, morto di cancro prima che la legge da lui predisposta terminasse il suo percorso parlamentare.

Secondo D’Alema e gli altri avversari o critici di Renzi, l’articolo 18 avrebbe soltanto due anni, essendo stato modificato nel 2012 sotto il governo “tecnico” di Mario Monti, e con Elsa Fornero ministra del Lavoro. Due anni, sempre secondo loro, sarebbero troppo pochi per metterci di nuovo le mani sopra, o dentro. Come Renzi si è invece proposto di fare per conservare la possibilità di reintegro, su decisione della magistratura, solo in caso di licenziamenti per ragioni discriminatorie o disciplinari, ed eliminarla invece in caso di licenziamenti per ragioni economiche, non sindacabili in giudizio.

Questa storia dei due anni “appena” trascorsi dalla riforma targata Fornero, che meriterebbe di essere “monitorata” piuttosto che cambiata di nuovo, come ha detto D’Alema alla direzione del Pd, non sta fisicamente in piedi. Come non lo sarebbe la storia di una donna di 62 anni che se toglie all’anagrafe 60, rifacendosi i documenti d’identità, solo per essersi fatta fare un lifting. No. La signora continuerebbe a portarsi addosso tutti indistintamente i suoi sessantadue anni, così come l’articolo 18 e la sua struttura si portano i loro quarantaquattro anni. Che sono una enormità rispetto ai cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro, e più generalmente nella società, dal 1970 ad oggi. Non c’è “monitoraggio” che possa cambiare questa innegabile realtà, per quanta acredine e supponenza possa avere messo e possa ancora mettere D’Alema sul fronte opposto.

D’altronde la stessa minoranza del Pd, non a caso spaccatasi nella votazione conclusiva dei lavori della direzione fra 20 no e 11 astensioni contro 130 sì al segretario, si è in fondo resa consapevole della sua debolezza politica, e non solo numerica. Lo si è capito chiaramente già prima che la riunione della direzione cominciasse, quando Cesare Damiano, esponente della minoranza e presidente della commissione Lavoro della Camera, ha ricordato che i suoi compagni di partito contrari al progetto del governo rivendicano una libertà di voto in Parlamento solo in riferimento agli emendamenti che hanno già presentato al Senato. Dove si giocherà il primo tempo della partita e la minoranza del Pd ha più carte da giocare per gli esigui rapporti di forza fra la maggioranza e le opposizioni.

Ciò significa che la minoranza del Pd, se fosse battuta sui suoi emendamenti, non potrebbe sentirsi legittimata a votare alla fine contro la legge. Neppure se i suoi emendamenti – si deve presumere – fossero battuti con i voti determinanti dei senatori berlusconiani di Forza Italia. Che avrebbero una valenza politica solo in riferimento, appunto, a quegli emendamenti e non in riferimento al quadro politico generale.

Diverso sarebbe il discorso, con gli effetti anche di una crisi politica, o di una necessaria verifica parlamentare della maggioranza, se i voti dei senatori berlusconiani si rivelassero determinanti per l’approvazione della legge di riforma del mercato del lavoro nel suo complesso, dopo l’esaurimento del lungo capitolo degli emendamenti.

La situazione, insomma, sembra per Renzi meno complicata e incerta di quanto appaia a prima vista. O di quanto abbiano interesse ad immaginarla e a rappresentarla gli irriducibili della minoranza del Pd e la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso.

Solo un sopraggiunto ripensamento del presidente della Repubblica, analogo a quello intervenuto due anni fa nel percorso parlamentare della riforma targata Fornero, potrebbe riaprire i giochi e consentire un altro effimero lifting dell’articolo 18. Non a caso il presidente del Consiglio ha tenuto a farsi ricevere al Quirinale prima della riunione della direzione del Pd. E sembra esserne uscito incoraggiato, o quanto meno autorizzato a proseguire sulla sua strada, pur consigliato ad essere più prudente con le parole. Lasciando evidentemente a D’Alema l’imprudenza verbale.

Francesco Damato

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