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Si chiama Regina Brandao. Di mestiere fa la psicologa. E’ stimata collaboratrice di Felipe Scolari dal 1990, anno del Mondiale italiano. I giornali brasiliani informano che era stata “arruolata” nel maggio scorso, insieme con le colleghe Aline Magnani e Gisele Silva, per tracciare i profili dei giocatori della Seleçao. Da qualche settimana sembra che vegli sugli “scompensi emotivi” dei verdeoro che versano quotidianamente, da quanto trapela dal ritiro di Teresòpolis, fiumi di lacrime. La signora Brandao, insomma,  starebbe assistendo ed accudendo Neymar, Fred, Hulk, Thiago Silva, Julio Cesar, Oscar, Paulinho, Marcelo e disastrata compagnia in queste ore che precedono la sfida tutt’altro che semplice con la Colombia e tentare, dopo averla battuta, l’assalto finale alla Coppa del Mondo. Impresa non facile, ma la psicologa dà grande affidamento allo staff brasiliano: con successo operò nel 2002, vincendo le insicurezze dei campioni dell’epoca ed aiutandoli a superarsi in una competizione che pure si presentava proibitiva, ma non come quella che si sta disputando.

La notizia, pur non cogliendo nessuno di sorpresa (ormai terapeuti vari fanno parte a pieno titolo delle compagini sportive e calcistiche in particolare), lascia comunque attoniti. Sarà che siamo legati ad un visione romantica del football, ma l’idea stessa che qualcuno, oltre agli allenatori, i medici ed i massaggiatori (mettiamoci pure i magazzinieri) si occupi di una squadra è quantomeno spoetizzante.

Ve lo immaginate Garrincha con quella sua gamba sbilenca, quel suo passo incerto, quelle sue finte da matto alle prese con uno psicologo? E quando il presidente della Repubblica brasiliana, al ritorno dall’impresa svedese (il Mondiale lo vinse quasi da solo nel 1958),  chiese a Mané cosa volesse dal momento che non aveva mostrato particolare  entusiasmo alla notizia premio, vale a dire una villa a ciascun giocatore, si sentì rispondere che  non desiderava altro se non la liberazione di un uccellino in gabbia indifferente agli onori che venivano tributati ai trionfatori, cosa avrebbe dovuto fare, mettere lui in gabbia e affidarlo ad uno psichiatra? E al dottor Socrates che trattamento avrebbero dovuto riservare quando invece di parlare di calcio parlava di politica e pensava che la “democrazia corinthiana” che aveva fondato avrebbe conquistato se  non il mondo, quantomeno il Brasile, e si preoccupava più di comprendere Gramsci che le giocate di Zico? E quel ragazzino del Santos, che di nome faceva Edson Arantes do Nascimento, ma tutti chiamavano Pelé, quando s’aggrappò al torace di Gilmar e pianse tutte le lacrime che aveva perché non si capacitava di essere diventato campione del mondo ed aver sciolto così  la promessa fatta a suo padre quel 16 luglio 1950 quando pianse altre lacrime perché la Seleçao si era impiccata, dovevano forse ricoverarlo?

Gilmar e i due Santos che ci hanno lasciato l’anno scorso, a distanza di pochi mesi l’uno dal’altro, se la stanno ridendo, insieme con Garrincha e Socrates guardando i moribondi di Teresopolis sull’orlo di una crisi di nervi. Che tristezza questo Brasile senza gioco, senza idee, senza speranze. Comunque vada è la fine di un mondo, la caduta di un mito.

La Colombia, piuttosto che agli psicologi  si affida alle sue sole forze. E alla sua memoria. Nella quale c’è posto anche per le tragedie che intende onorare.

Venti anni fa, il due luglio, dopo la sconfitta della nazionale con gli Stati Uniti, che ne  precluse il passaggio agli Ottavi di finale, Andrés Escobar, difensore della Seleccion e dell’Atletico Nacional, venne ucciso a colpi di pistola davanti ad una discoteca di Medellin. Il suo autogol mise fuori la Colombia dalla competizione. Un miserabile delinquente non glielo perdonò. Oggi nella squadra di James Rodriguez e di Camilo Zuniga “c’è lo spirito di Andrés”, hanno detto i fratelli dell’ucciso, Maria Ester e José Escobar.

Una partita di calcio non sempre è una partita di calcio. Per il semplice motivo che il calcio non è soltanto uno sport. Ricordando Escobar, una grande Colombia renderà omaggio i tanti, troppi caduti per una passione che non comincia e non finisce su un verde campo di gioco.

A Teresópolis si piange, ma non per Andrés Escobar

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