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Per una volta non rispetto i dettami di chi mi ha insegnato il mestiere e inizio un articolo con un fatto personale.

Anno 2001, governo Berlusconi: centrodestra compatto, voglioso, riformatore e un po’ guascone. Nella maggioranza inizia a maturare la convinzione di un intervento deciso sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, superando l’obbligo del reintegro in caso di licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, e prevedendo forme di risarcimento economico al posto del reintegro sul posto di lavoro.

All’epoca ero cronista a cavallo fra economia e politica, nella redazione romana del Giornale diretto da Maurizio Belpietro. Sondo informalmente il segretario confederale della Cisl, Raffaele Bonanni: “Segretario – gli dico al telefono – è vero che non è contrario al superamento dell’articolo 18?”. Risposta: “Arnese, l’argomento è delicato, ma se vuoi un ragionamento oltre che un titolo, sono disposto a parlarne. Però mi devi far rivedere il testo prima della pubblicazione”. L’intervista esce: una “bomba” giornalistica. Per giorni e giorni non si parla d’altro che delle aperture della Cisl sulle idee in cantiere nel centrodestra in materia di articolo 18. Ovviamente Bonanni incassa elogi dalla maggioranza, critiche dall’opposizione e reazioni virulente della Cgil.

A che serve ricordare questo episodio? Per un paio di motivi.

Il primo: il centrodestra più o meno unito e più o meno al governo che in queste ore incalza all’unisono l’esecutivo di Matteo Renzi chiedendo che si acceleri nel superamento dell’articolo 18 appare più dedito a ragioni politiche contingenti che a un disegno di ampio respiro.

Secondo motivo: il centrodestra ha avuto la possibilità 13 e passa anni fa di portare a compimento quella riforma, ma non l’ha fatto. Qui non è il caso di analizzare il perché. Ma il fatto che a distanza di 13 anni si torna a parlare ed auspicare questa riforma mancata significa, implicitamente, sottolineare il parziale fallimento di quel centrodestra liberale e riformatore che ora leader e leaderini, movimenti e partitucoli, cercano chissà con quanta reale volontà di ricostruire su basi nuove. Insomma, la credibilità degli attuali proponenti deve fare il conto con quanto da loro stessi non è stato riformato (non solo in materia di lavoro) nonostante buone intenzioni e anni di governo.

Terzo motivo: una cosa buona e giusta come l’abolizione dell’anacronistico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non può essere fatta passare come la panacea di recessione e disoccupazione, anche se da Bruxelles e Francoforte si tende ad accreditare questa tesi. Perché con queste tesi – tra l’altro – si bistrattano slanci comunque riformatori, seppure dagli effetti controversi come quelli voluti dal governo Monti (gli obiettivi iniziali si sono trasformati in norme che contraddicevano gli obiettivi dichiarati), e provvedimenti di notevole impatto e coraggio (come riconosciuto da un esperto che non lesina critiche come Giuliano Cazzola) come il decreto che porta il nome del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ha sostanzialmente liberalizzato i contratti a termine a 3 anni.

Beninteso, avanti tutta e al più presto col Jobs Act infognato in Parlamento. Ma per cortesia: non esistono magie normative per ridurre la disoccupazione. Anche se qualcuno tende a farlo credere.

Articolo 18: totem, tabù e bufale

Per una volta non rispetto i dettami di chi mi ha insegnato il mestiere e inizio un articolo con un fatto personale. Anno 2001, governo Berlusconi: centrodestra compatto, voglioso, riformatore e un po' guascone. Nella maggioranza inizia a maturare la convinzione di un intervento deciso sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, superando l'obbligo del reintegro in caso di licenziamenti senza…

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