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L’Iran è stato sorpreso dall’attacco di Hamas, e in risposta, secondo fonti di Reuters, la Guida suprema Alì Khamenei avrebbe personalmente comunicato al leader palestinese Ismail Haniyeh che non entreranno in guerra al fianco dell’organizzazione che controllava la Striscia — ormai militarmente occupata da Israele.

Hamas fa parte di un network più o meno informale di milizie che i Pasdaran coltivano, con aiuti economici (ai leader), militari e indottrinamento ideologico (ai guerriglieri). Si chiama “Asse della Resistenza” riprendendo una semantica khomeinista, anche se la rivoluzione islamica sciita globale è distante dal sunnismo salafita iper localizzato di Hamas. La resistenza si gioca contro Israele, ma anche contro gli Stati Uniti e per estensione contro l’Occidente.

Questo asse è parte nevralgica del sistema di pressione geopolitica che l’Iran usa per proteggere la sua proiezione nella regione. È una leva contro i regni del Golfo e Israele. Ma allora, perché Khamenei rende pubblico di non essere stato informato dell’attacco devastante del 7 ottobre e rinuncia alla difesa di una componente dell’asse dall’alto valore strategico (spina nel fianco all’interno del detestato stato ebraico)?

“Combatti solo le guerre per cui sei pagato”, dice l’assassino di professione interpretato da Michael Fassbender in “The Killer”, nuovo record-film di Netflix. E nessuno ha intenzione di “pagare” Teheran per combattere. Non Khamenei, non i suoi grandi interlocutori: la Cina è impegnata in quella che Enrico Fardella (L’Orientale/ChinaMed) ha definito “short deténte” con gli Stati Uniti e non vuol correre il rischio di finire invischiata in un coinvolgimento iraniano, che Washington considera (a torto o ragione) un attore controllato da Pechino; la Russia ha perso parte del grip militare in Medio Oriente a causa dello sproporzionato impegno in Ucraina.

Nel frattempo, l’America ha dimostrato la sua straordinaria capacità operativa e di potenza di fuoco, correndo a ristabilire la deterrenza nell’area. E se è vero quello che dice il leader si Hezbollah Hassan Nasrallah, secondo cui può essere anche un segno di debolezza (perché la deterrenza non si esercita), è altrettanto vero che è uno degli elementi che sta tenendo su un livello di bassa intensità i fronti che i Pasdaran potrebbero sensibilizzare. La paura è chiara: se l’Iran dovesse finire tra i responsabili diretti della crisi e nel mirino americano non si potrebbe difendere e non potrebbe attrarre difensori.

E allora, pur offrendo sostegno morale e politico, Khamenei avverte contro un intervento diretto nel conflitto. Le interpretazioni sull’evento variano tra essere colti di sorpresa e un coinvolgimento degli apparati clandestini dei Pasdaran, con diverse fonti che forniscono versioni contrastanti. Ma quel che è chiaro è che siamo distanti da un all-in iraniano. Ossia, le preoccupazioni per un’escalation regionale sono per ora bloccate da interessi diretti dell’Iran, che passano anche dalle considerazioni conseguenti all’attività militare americana.

E da quella diplomatica. Gli Stati Uniti hanno pesantemente forzato i partner regionali a tenere sotto controllo la situazione, pur consapevoli che Paesi come Arabia Saudita, Bahrein o Qatar (in misura minore gli Emirati) avevano bisogno di lasciare spazio agli istinti delle piazze. In questo, mentre si è recuperato parte del recuperabile bei rapporti con il mondo sunnita — vedi la recente partecipazione del presidente Ebrahim Raisi ai summit per discutere la crisi a Riad — l’Iran non vuole restare escluso. Sarebbe impossibile continuare questo dialogo con un Iran guerresco.

Teheran spera dunque di sostenere la causa palestinese senza rischiare troppo, utilizzando diplomazia e aiuti concreti, mentre lascia l’uso delle armi a fazioni sciite della regione da cui può prendere distacco con “plausible deniability”. Per il resto, anche la Repubblica islamica sceglie meno ideologia e più pragmatismo in un momento in cui dalla crisi tutti intendono capitalizzare.

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