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Nella sola città di Milano, si dice esistano almeno una quindicina di giornali locali online. Ovvero, legati al quartiere, alla zona, alla propria via. Nel panorama giornalistico nazionale, i pochi successi editoriali di epoca recente sono riferibili a testate cittadine sviluppate sul web. O, se non cittadine, comunque connotate da un forte legame di appartenenza con la propria community di lettori.

Si tratta di piccole realtà. Spesso, di oggetti-non-identificati, ossia nati al di fuori della galassia giornalistica regolamentata. Probabilmente, senza nemmeno avere volontà, o finanche coscienza, di bussare a tale galassia.

Queste comete di giornalismo non-ben-identificato, tuttavia, contengono in sé l’aspetto più sostenibile (dal punto di vista economico e sociale) di questo mestiere. E, nel contempo, portano alla luce elementi chiave del contrasto tra la nuova realtà e l’antico paradosso della professione.

NUOVA REALTÀ E PARADOSSO
La nuova realtà è quella di un mondo in cui ognuno può diventare un piccolo editore: basta portare in tasca un apparecchio capace di connettersi alla Rete e, con essa, ai social media.

L’antico paradosso è quello di una professione, il giornalista, che si è sempre espressa attraverso un contratto di lavoro dipendente. Questo ossimoro è stato risolto, sin dalle origini, con la costruzione di un sistema regolatorio complesso, il cui cardine era un contratto di assunzione studiato per offrire la massima garanzia al professionista. In questo modo, si è assicurata la libertà professionale pur in una situazione di dipendenza.

L’equivoco originario, però, ha generato distorsioni progressive. Le due principali degenerazioni sono state: quella di un sistema massimamente blindato per chi era all’interno, e così massimamente escludente per chi ne restava all’esterno; quella di un sistema che per mantenere un tale equilibrio sempre meno stabile, si è dotato di macchine amministrativo-burocratico-sindacali dalla forza e dimensione crescente, al punto che, come ogni Leviatano, sono divenute esse stesse (e non il mondo da esse tutelato) la propria ragione di vita.

SCONTRO CON IL PASSATO
Ebbene, cosa sta emergendo dal contrasto tra la nuova realtà e l’antico paradosso.

Quest’ultimo (il paradosso) imponeva che il “cliente” del professionista giornalista non fosse il lettore, bensì l’editore. In altre parole, la prestazione professionale era fornita al proprio editore, per quanto il destinatario ultimo fosse (e rimanga) il lettore.

Il problema è che l’editore giornalistico è oggi una figura in via di estinzione. O, quanto meno, lo è la figura dell’editore giornalistico che basava il proprio equilibrio economico sulle entrate legate alla vendita della pubblicità. Ossia la vendita di una prestazione accessoria e (deontologicamente) subordinata a quella della ricerca, elaborazione e diffusione di notizie.

Oggi, la produzione, ricerca e diffusione di notizie è continua, inarrestabile, ubiqua. Ognuno, appunto, può essere un editore di se stesso, semplicemente con l’invio di un tweet. Questo scenario di informazione-moltiplicata: (1) rende assai difficile offrire una prestazione giornalistica distintiva al punto da poter associare a essa una pubblicità vendibile. La pubblicità, infatti, sembra avviata verso formule di associazione differenti a quelle giornalistiche classiche. La pubblicità scopre anch’essa la facilità di essere editore, attraverso la produzione in proprio di contenuti, anche informativi. (2) Se ognuno può essere un editore, significa anche che ogni lettore può essere un editore.

Quest’ultimo assunto può diventare la chiave di tutto.

Il punto di connessione tra la nuova realtà e l’antico paradosso, è che la prima ha la possibilità di risolvere il secondo.

IL “CLIENTE” RITROVATO NEL LETTORE
Il proliferare delle testate locali online, o comunque delle testate ad altissima specializzazione (leggi: fidelizzazione della community), è probabilmente avvenuto sulla prospettiva di poter godere, in chiave territoriale, del modello di raccolta pubblicitaria. E questo si è evidentemente tradotto anche in operazioni border line, degenerate poi in situazioni come quella di SassariNotizie (vedi la storia ricostruita nell’articolo “Sassari, il giornale che non c’è”). Il fatto è che questo modello di raccolta pubblicitaria, come avviene a livello nazionale, non è la formula per lo sviluppo futuro.

Ciò che le testate locali, o a forte fidelizzazione, oggi possono spendere, è una identificazione con i propri lettori che, grazie alle innovazioni tecnologiche, non ha precedenti. I lettori rappresentano una community. E come tale tornano a essere il “cliente” finale del giornalista.

Ritrovare, finalmente, l’identificazione del proprio cliente nel lettore, non è un risultato da poco per la professione del giornalista.

La prospettiva, infatti, è che questo “cliente” sia disposto a essere coinvolto nell’attività della testata (lettore stakeholder) nonché a pagare per la prestazione, sia attraverso forme di abbonamento, sia attraverso forme di partecipazione azionaria all’iniziativa editoriale (lettore-shareholder).

Il moltiplicarsi dell’informazione locale online, l’esplodere dell’informazione sui social media, la possibilità di un numero infinito di lettori-clienti-editori, sono aspetti fino a oggi lasciati al di fuori della galassia tradizionale del giornalismo. Fuori dai suoi contratti. Fuori dalle sue regole. Fuori dai suoi Leviatani.

Questa sfida, viceversa, andrebbe fatta propria dall’Ordine e portata avanti come prospettiva di innovazione tecnologica e, insieme, di innovazione sociale.

 

 

Giornalismo sostenibile? Se il lettore ritorna cliente

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