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Se la comunicazione di Joe Biden arrivata ieri fosse stata diffusa una decina di mesi fa, nessuno si sarebbe sorpreso: la rinuncia a correre per Usa2024 da parte del presidente incumbent è un colpo di scena relativo. Non l’azione di governo del suo primo, unico mandato — quella giudicata eccellente da qualsiasi analisi e valutazione — ma l’età, e dunque la futuribilità di un secondo giro presidenziale, sono infatti sempre stati il problema del leader democratico. Un dibattito dal risultato disastroso, le pressioni di compagni di partito e (soprattutto) donors sono ciò che l’hanno portato alla scelta estrema. Attesa, quanto forse tardiva.

E dunque, cinquantasei anni dopo la rinuncia di Lyndon Johnson, i Democratici arrivano alla Convention del 19 agosto senza un candidato in pectore. Sempre a Chicago tra l’altro, con la Città del Vento che fa da palcoscenico a una scelta che in modo simile a quella di Hubert Humphrey nel 1968 potrebbe “incoronare” la vice presidente Kamala Harris (se Harris in queste settimane sarà brava a magnetizzare su di sé il placet della maggioranza necessaria) oppure riprendere la tradizione di “Convention aperta” superata da più o meno settanta anni di storia.

Quello che si è aperto da ieri, quando il team di Biden ha appreso del ritiro del candidato da un post su X, ha aperto la strada a un processo di nomina dinamico e potenzialmente complesso, quanto meno non usuale, all’interno del Partito Democratico. Curiosità: tutto il processo, compresi gli onori e i primi endorsement alle varie road map proposte, è avvenuto nel social network di proprietà di Elon Musk, noto finanziatore trumpiano, e questo è un tema dei tanti temi.

Andando oltre, nonostante il sostegno di Biden aumenti significativamente le prospettive di Harris, il suo percorso verso la candidatura definitiva che dovrà essere sancita dai quasi 4000 delegati alla Convention, nulla è infatti ancora garantito. Il Partito Democratico dovrà dunque affrontare una di queste tre possibili vie di seguito, per finalizzare il candidato per presidenziali: la definizione di queste sarà anche frutto della quantità e della qualità di chi l’appoggia.

Processo di mini-primarie

Questo approccio invaliderebbe i risultati delle primarie precedenti e libererebbe i delegati che avevano sostenuto Biden. Le primarie verrebbero ripetute Stato per Stato, permettendo ai delegati di impegnarsi per nuovi vincitori. Questo metodo soddisferebbe le richieste di un processo di selezione ultra democratico, assicurando che il candidato rifletta le preferenze attuali degli elettori. Ma sarebbe oggettivamente complicato.

Virtual nomination

I delegati impegnati con Biden potrebbero seguire il suo esempio e sostenere Harris, garantendo la sua nomina prima di una scadenza contestata per la scheda elettorale dell’Ohio – c’è infatti una specifica: nello stato del Midwest, storicamente decisivo per le presidenziali, si deve presentare il nome dei candidati entro il 7 agosto, anche se in queste ore si dovrebbe decidere per una deroga. Questa mossa serve per prevenire il caos, mirando a evitare una riunione della Democratic National Committee (Dnc), controverso (che potrebbe esporre distanze, differenze, rancori), assicurando che un candidato sia scelto in anticipo e prevenendo conflitti interni al partito – ma potrebbe essere visto come forzato.

Voto alla Dnc

Simile al voto virtuale anticipato, questo processo utilizzerebbe i delegati già impegnati con Biden. È considerato logisticamente più semplice di una mini-primaria e più democratico di un voto virtuale anticipato, però dovrà essere organizzato nei minimi dettagli per non rischiare di esporre divisioni. È infatti un metodo che comporta il rischio di una Convention contestata e frammentata (almeno in parte), che potrebbe indebolire il candidato prima dell’inizio ufficiale della campagna elettorale generale – il rush finale, i tre mesi decisivi in cui il/la candidato/a Dem dovrà lavorare sul doppio fronte, mantenere la sua constituency, allargandola agli indecisi.

Get the nomination

Indipendentemente dal metodo scelto, Harris o qualsiasi altro candidato dovrà ottenere la maggioranza dei delegati democratici. Le regole di nomina del Dnc prevedono che 3.949 delegati votino al primo turno. Se nessun candidato ottiene la maggioranza semplice, il processo passa a un secondo turno in cui tutti i delegati possono votare per qualsiasi candidato e partecipano anche 749 superdelegati non impegnati. Le votazioni continuano fino a quando un candidato riceve la maggioranza tra i circa 4.700 delegati e superdelegati.

Al di là del tecnicismo, Harris entra nella corsa con diversi vantaggi chiave: ha il sostegno di Biden, forte e inequivocabile supporto in ottica di una continuità che dovrebbe garantire anche una stabilità, seppure rinfrescata dalla candidatura dell’ex procuratrice; ha lo status di vicepresidente, che è utile per accreditarsi in senso generale; ha le risorse della campagna Biden, con un possibile accesso immediato ai milioni dei fondi raccolti già dal presidente (non poco); ha un forte supporto tra gli elettori democratici, in particolare tra i giovani, le minoranze e le donne; ha il supporto da parte di gruppi e figure influenti come il Congressional Black Caucus, il Congressional Progressive Caucus, il Congressional Hispanic Caucus e la famiglia Clinton.

Indubbiamente, questi fattori rendono Harris una candidata formidabile per i Democratici (da testare il consenso generale, perché si parte da sondaggi non proprio favorevoli), potenzialmente scoraggiando sfidanti di peso dall’entrare nella corsa. E andrà capito se questo è un problema oppure un vantaggio nell’ottica dell’evitare che alti papaveri del partito si sfidino e dividano il fronte  – che adesso serve più compatto che mai per battere un Donald Trump che vede (a ragione?) il ritiro di Biden come un vantaggio.

In particolare, questo quadro è quello che ha scoraggiato il governatore della California, Gavin Newsom, e la collega del Michigan, Gretchen Whitmer: nel giro di poche ore dopo l’annuncio di Biden, entrambi hanno indicato che non sfideranno Harris, facilitando ulteriormente il suo percorso verso la nomina. Il cui processo, in questa fase, è un fattore apparentemente tecnico ma rivelatore di come gli equilibri interni del partito si stanno posizionando. E questo sarà fondamentale perché tale percezione uscirà all’esterno e diventerà l’elemento di attrazione – o di repulsione – per i Democratici. Parallelamente passa la scelta del vice, che sarà da bilanciare tra la necessità di essere ben strutturati in Stati chiave, e la volontà di trasmettere messaggi di contenuto con il nome del prossimo VP.

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