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Embrassons nous: è finita a cantucci e vin santo. Matteo Renzi ce l’ha fatta ancora. Ma il problema rimane: sostituire due membri di una commissione parlamentare costituisce un attacco alla democrazia? Così è stato detto, con tonalità fra le risentite e le aggressive, da Vannino Chiti e Corradino Mineo, i senatori del Pd sostituiti nella commissione permanente Affari Costituzionali, e da altri corsi in loro appoggio. Tutto il can-can mediatico ha puntato sul conflitto tra un Renzi autoritario e rottamatore da un lato, e le due «vittime», campioni di democrazia, dall’altro. È stata scomodata, come sempre avviene, la Costituzione, è stato invocato il «sacro e inviolabile» art. 67, che, in questo caso, c’entra come i cavoli a merenda. Una cosa appare evidente: che l’episodio rientra nel tentativo, da parte dei ceti conservatori del Pd, di far pagare a Renzi l’ «offesa» fatta al Partito: quella di averlo portato al 40,8 % dei voti.

Difficile negare che la sostituzione di due senatori, che, in contrasto con quanto approvato quasi all’unanimità dal Pd, proponevano un loro disegno di modifica del Senato, corrisponda alla volontà di Renzi di facilitarne l’iter della trasformazione. Ma il vero problema è un altro: era lecita o meno quella sostituzione? Per capirlo basta leggere gli articoli sulle commissioni permanenti del regolamento del Senato (21 ss.), che sono del tutto consoni con quelli dell’analogo regolamento della Camera (19 ss.). Due sono i problemi di fondo: 1. scopo delle commissioni: 2. loro formazione. Lo scopo è di formulare pareri consultivi e, in rari casi, anche deliberanti (ma le leggi costituzionali ne sono escluse). Le commissioni esercitano dunque un lavoro volto a preparare e facilitare i lavori del parlamento, al quale spetta la decisione finale.

Coerente con tale finalità è il modo con cui i membri delle commissioni vengono scelti. I loro membri non sono in alcun modo “eletti”, ma semplicemente “designati” dai gruppi parlamentari, dei quali sono i rappresentanti. E i capigruppo possono in ogni momento sostituirli, provvisoriamente o definitivamente, sempre nei limiti di due anni di mandato, dopo i quali tutti vanno rinnovati o cambiati. E devono sempre essere designati in modo che sia «rispecchiata la proporzione esistente in Assemblea fra tutti i gruppi parlamentari» (art. 19, 2, Camera; 21, 3, Senato; che riprendono la formulazione dell’art. 72 della Costituzione).

Chi conosca i regolamenti dei due rami del parlamento è rimasto stupito dalle inopportune affermazioni del sen. Chiti. Egli ha chiamato in causa i grillini, che vorrebbero eliminare l’art. 67 della Costituzione. Un articolo, già presente nello Statuto Albertino del 1848, rimasto immutato nella Costituzione della Repubblica del 1948. Molto importante, esso costituisce uno dei pilastri della democrazia occidentale: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Chiti accusa Renzi di aver fatto come Grillo: «ha messo quell’articolo sotto i piedi». Una infondata affermazione liturgica, dato che l’articolo vale per l’aula, non per le commissioni. Nelle quali il senatore riceve un mandato dal gruppo partitico di appartenenza, il quale, senza alcuna votazione, lo sceglie.

I senatori antirenziani della Commissione affari costituzionali hanno ogni diritto di votare contro il disegno di legge che modifica il Senato, se non lo ritengono adeguato. Il luogo dove farlo, però, non è la commissione, dove non sono stati eletti dai cittadini, ma designati dal gruppo parlamentare. Invocare l’art. 67 della Costituzione è del tutto fuori luogo. La commissione, infatti, è una variabile dipendente dei gruppi assembleari, cioè dei partiti politici. Chi ne fa parte sa di esserci proprio per difendere le proporzioni fra i gruppi, non certo per crearne delle nuove, diverse da quelle dell’aula. Ciò può far nascere dei problemi di coscienza, che potranno essere risolti in quel luogo, di cui l’art. 67 è appunto la garanzia: l’aula parlamentare. Oppure si può fare come chiedeva Sturzo. È nota la sua polemica contro i gruppi parlamentari, in cui vedeva il trionfo della partitocrazia. E nella seduta del Senato dell’11 luglio 1958 chiese, senza alcun esito, «di eliminarli e di nominare le commissioni in aula». Non risulta che Mineo o Chiti abbiano ripreso quella proposta. Essi hanno accettato, con la designazione, quelle regole, che poi con un sofisma hanno rifiutato.

Perché Mineo e Chiti hanno torto

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