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L’intellettuale marxista Alberto Asor Rosa lo considera un “leader post-democratico”. L’economista Alberto Quadrio Curzio lo dipinge come “un liberal-sociale di tipo tedesco”. Sono due delle molteplici etichette attribuite a Matteo Renzi, assurto a perno indiscusso dell’universo politico italiano.

Un profilo al vetriolo

Figura di cui offre un ritratto sferzante e velenoso il libro “Il Berluschino. Il fine e i mezzi di Matteo Renzi”, scritto dall’ex tesoriere dei Radicali Michele De Lucia: “Terrorizzato dal riflesso di un paese che si fa incantare dal pifferaio magico di turno, salvo poi rivolgersi contro di lui con le monetine o i Piazzale Loreto”.

Un giudizio duro e sorprendente considerando che proviene da un mondo antesignano, nelle tenaci e solitarie campagne portate avanti per tutti gli anni Novanta, delle riforme economico-sociali liberali cui nelle intenzioni aderisce lo stesso premier.

Le analogie e le differenze con l’ex Cavaliere

Il volume, presentato ieri nella sede del Partito radicale a Roma, ha visto un confronto fra giornalisti, politici e giuristi attorno a un personaggio che, come spiega il vaticanista di Radio Radicale Giuseppe Di Leo, ha proiettato sulla politica la sua formazione di cattolico cresciuto nel pontificato di Giovanni Paolo II. Stagione caratterizzata dal fiorire di movimenti cristiani critici verso il centralismo della Chiesa.

Lettura molto lontana rispetto all’analisi svolta da Fabrizio d’Esposito, firma politica del Fatto Quotidiano. D’Esposito parla di una perfetta continuità tra il leader del Partito democratico e il berlusconismo, o meglio il modello di comunicazione berlusconiana: “Universo di cui Renzi è il frutto avvelenato, avendolo assimilato fin da adolescente assieme alla cultura della sinistra democratico-cristiana assorbita grazie alla formazione paterna”.

Agli occhi del giornalista l’ex primo cittadino di Firenze appare perfino più insidioso dell’ex Cavaliere. Che nel 1994 si limitò a ricreare le forze superstiti del pentapartito nel contenitore di Forza Italia. Mentre il Presidente del Consiglio è riuscito a guidare una campagna elettorale inclusiva per il rinnovo del Parlamento europeo, conquistando i delusi del centro-destra, prosciugando il bacino di consensi di Scelta Civica, raccogliendo le adesioni dell’ex Partito comunista nelle “regioni rosse”.

Uno spregiudicato inaffidabile

Restio a sviluppare un’analisi politica articolata di tipo novecentesco – rimarca d’Esposito – Renzi è avvezzo a parlare per spot di facile presa televisiva: “Arrivista e ambizioso fin da quando si legò all’esponente toscano dei Popolari Lapo Pistelli, ha compiuto acrobazie spregiudicate e contraddittorie. Caratteri che lo rendono bipartisan e intercambiabile per entrambi gli schieramenti. Per cui l’incontro al Nazareno con Berlusconi fu il summit tra un pregiudicato e uno spregiudicato”.

Una figura, precisa il giornalista del Fatto, legata a persone come Marco Carrai, già vicino a Forza Italia e a Comunione e Liberazione. O al conservatore statunitense già attivo nei servizi segreti Michael Ledeen. Renzi rappresenta “l’approdo inevitabile del percorso che portò alla nascita del Partito democratico. E pertanto non è affidabile”.

Una figura neo-autoritaria

A fornire una spiegazione dello straordinario successo del numero uno del Nazareno è Fausto Bertinotti, già presidente della Camera dei deputati e direttore della rivista “Alternative per il socialismo”. A suo parere è impossibile ragionare su Renzi richiamando i protagonisti e le forze politiche della prima Repubblica. Perché è stata superata una soglia epocale: la sconfitta storica del movimento operaio animatore del Novecento e artefice del “compromesso democratico” con il capitalismo industriale.

Il segretario del PD, evidenzia l’ex leader di Rifondazione comunista, si trova a valle di tale cesura e non ha di fronte alcun avversario fautore di una visione alternativa di società. È il campione di una realtà in cui il capitalismo finanziario globale ha neutralizzato la politica promuovendo al suo posto un “governo neo-autoritario e neo-bonapartista”: “Un populismo dall’alto spinto dalla volontà di smantellare tutto ciò che è pubblico, e di plasmare le istituzioni sulla governabilità anziché sulla sovranità popolare”.

Neutralizzati gli antichi confini politici

Renzi, osserva Bertinotti, ha completato tale processo distruggendo lo storico solco che separa destra e sinistra per raggiungere lo scopo prioritario della vittoria elettorale. A cui segue, con gli adattamenti e metamorfosi opportune, il programma di governo. Il premier, in altre parole, si afferma perché non è socialista come prova il voto europeo.

Argomentazioni condivise da un antico avversario dell’ex presidente dell’Assemblea di Montecitorio come Giorgio Rebuffa, parlamentare di Forza Italia nella pattuglia dei “professori liberali” del 1996 e docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Genova. Per lui Renzi incarna il trionfo del post-moderno, di una politica novecentesca sfrangiata. “Ma dietro tale fenomeno di rottamatore e decisore vedo la volontà di gruppi di potere e dell’establishment”.

Un finto homo novus privo di visione

Al contrario di Berlusconi che non riuscì a creare un amalgama politico dal calderone di famiglie partitiche allo sbando – rileva il giurista – Renzi fa finta di essere un homo novus pur presentando un cursus politico-amministrativo robusto e radicato nelle esperienze locali della seconda Repubblica.

Tuttavia, osserva lo studioso, è privo di un reale punto di forza. Le primarie sono un banco di prova parziale, e il voto europeo è un’espressione fluida e transitoria di volontà popolare. “Il premier avrebbe bisogno di una visione della politica tipica del Novecento tanto bistrattato. Strumento che gli manca del tutto”.

Bertinotti, Rebuffa e d'Esposito analizzano il Renzi Berluschino

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