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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Tino Oldani apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Il premier Matteo Renzi è un ragazzo sveglio, un politico che impara in fretta e riesce in modo brillante a fare la sintesi dei problemi più complessi. Ma per quanto sia veloce, dotato di una marcia in più, un vincente nato (il suo 40,8% alle europee resterà nella storia), finora non è riuscito a nascondere il fatto che l’Europa rappresenta il vero punto debole della sua formazione culturale e politica.

LE LACUNE DI RENZI

Una lacuna culturale, perché nei suoi libri mostra di non sapere granché dell’Unione europea, alla quale ha dedicato poche righe di circostanza, che non vanno oltre l’ovvio: «Se dobbiamo mettere a posto i conti pubblici, non è perché ce lo chiede l’Europa, ma per i nostri figli».

Ma soprattutto una lacuna politica: nella sua fulminante carriera, che lo ha proiettato dalle responsabilità in sede locale (Provincia e Comune di Firenze) direttamente a Palazzo Chigi, Renzi non si è mai dovuto misurare con i poteri di Bruxelles, e probabilmente li ha sottovalutati, finché – diventato premier – ha scoperto di non poter neppure nominare come ministro dell’Economia un uomo fidato della sua cerchia, ma ha dovuto subire l’imposizione di Pier Carlo Padoan, che non conosceva, un tecnico gradito a Bruxelles per i suoi trascorsi di funzionario dell’Ocse.

IL NOME DI NAPOLITANO

Oggi Renzi e Padoan si mostrano in pubblico come pappa e ciccia, ma non è un segreto che già nel 2013 Padoan era il candidato all’Economia di Pierluigi Bersani, se a quest’ultimo fosse riuscito di formare il governo. Altrettanto certo è il fatto che a imporre la nomina di Padoan in questo esecutivo sia stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ne aveva saggiato il gradimento internazionale (Fmi, Bce, Ue). Una mossa azzeccata, a quanto sembra, se si considera la sostanziale moratoria sui conti pubblici che il ministro dell’Economia è riuscito ad ottenere da Bruxelles, nonostante gli scostamenti dai parametri europei siano più d’uno, e tutt’altro che di lieve entità. Basta pensare al fatto che l’Italia ha chiesto il rinvio di un anno per il pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e che nel bilancio 2014 vi è un buco di 9 miliardi da colmare entro l’anno, di cui più di 6 miliardi causati dal bonus di 80 euro.

LA PAGELLA DI BRUXELLES

Le cronache dal back stage dicono che la pagella di Bruxelles fosse in origine assai più severa. La bozza redatta dal direttore del Dipartimento guidato da Olli Rehn, l’italiano Marco Buti, non consentiva il rinvio di un anno del pareggio di bilancio, imponendo di fatto una manovra correttiva. Ma un insieme di motivi (la credibilità di Padoan, l’impegno del governo per le riforme, più la squillante vittoria elettorale di Renzi, unico premier filo-euro ad essere premiato dagli elettori) hanno suggerito alla Commissione Ue di rinviare a novembre la pagella finale, evitando così all’Italia un’umiliazione pesante proprio alla vigilia del suo semestre di presidenza europea.

LE OTTO RACCOMANDAZIONI

Renzi non ha certo bisogno di consigli. Ma nei suoi panni non sottovaluteremmo le otto raccomandazioni che l’Ue ha rivolto al governo. Esse spaziano su tutti i campi (conti pubblici, tasse, pubblica amministrazione, banche, lavoro, scuola, concorrenza, trasporti) e, messe insieme, costituiscono un vero e proprio programma di governo. Vale a dire il programma che d’ora in poi il governo Renzi dovrà fare proprio per restare nei parametri del Fiscal Compact, trattato che l’Italia – come gli ha ricordato Olli Rehn – non solo ha sottoscritto, ma introdotto nella Costituzione.

COME LA LETTERA A BERLUSCONI

Il paragone non è esaltante, ma le otto raccomandazioni di Rehn, proprio per la loro precisione programmatica, ricordano la lettera inviata dalla Bce al governo di Silvio Berlusconi nell’agosto 2011. Come Renzi dopo le europee, anche l’allora Cavaliere si sentiva politicamente forte, avendo ottenuto nel 2008 una maggioranza schiacciante, con quasi cento deputati più dell’opposizione. Come Renzi, anche B. aveva un ministro dell’Economia (Giulio Tremonti) stimato dai colleghi europei e dalla Commissione Ue più di quanto lo apprezzasse lui stesso, come ha dimostrato la ricostruzione fatta da Renato Brunetta sulle modalità con cui la lettera della Bce arrivò a conoscenza del premier.

LA STRATEGIA DI RENZI

Certo, nessuno oggi riesce ad immaginare un premier che – come B. – tenga all’oscuro il suo ministro dell’Economia sui contenuti di una lettera strategica come quella della Bce. Un fatto grave e politicamente squalificante, che contribuì all’insuccesso di quell’esecutivo. Ma se Renzi vuol evitare che il suo semestre di presidenza europea si trasformi in un calvario, oltre a tenersi buono Padoan, dovrebbe evitare di reagire come, secondo alcuni, avrebbe fatto ieri: «A me va bene cosi, non ci hanno imposto la manovra. Ma anche se lo avessero fatto, non gli avrei dato retta, avrei risposto che non erano i nostri conti a dover essere corretti, ma che sono loro a dover cambiare». Fece più o meno così anche B., e finì male per lui e per l’Italia.

DALLO SLOGAN AI CONTENUTI

Il nostro non è un invito a subire passivamente i diktat europei. Restare in Europa per cambiarla è uno slogan che Renzi ha fatto proprio dopo la vittoria elettorale. Uno slogan condivisibile. Ora però il premier deve passare dallo slogan ai contenuti, all’indicazione di una strategia credibile e sostenibile. Possibilmente prima che inizi il semestre della presidenza italiana in Europa.

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