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Tutto il fiele che circola nel groviglioso mondo dei politicanti  che sopravvivono ai loro antichi ardori è emerso nel processo a Renzi celebrato a Palazzo Madama e a Montecitorio, con contorno di giornaloni che, dopo avere spinto il giovin signore fiorentino sino all’azzardo di mettersi contro tutte le burosaurocrazie nazionali ed europee, già non sanno più che farne. Ne è sortito fuori un apparente paradosso, peraltro rilevato da qualche notista (Alessandro Sallusti, per fare un nome): Renzi ha incontrato ostacoli reali, tutt’altro che rimossi, fra quanti gli hanno dato voto favorevole. Non certo da chi non ha nascosto una disponibilità ad una benevola attesa e persino da quegli oppositori, non vedovi di Letta, ma ugualmente interessati, quanto Renzi, a cambiare verso all’Italia; ma in tutt’altra direzione.

Nel processo parlamentare è stata apertamente rinfacciata al nuovo presidente del consiglio la sua provenienza extraparlamentare. Si sono visti pezzi da novanta che siedono nei Palazzi da quando avevano i calzoncini corti e i calzini arrotolati alle caviglie, esprimere disgusto per le mani in tasca che il neopresidente si consentiva mentre esponeva le proprie intenzioni  programmatiche. Soprattutto si è compreso che nel corpaccio del Pd è tutt’altro che digerita l’affermazione di Renzi nelle primarie di partito e, invece, si è già prontissimi a sottrargli la segreteria per riequilibrare ciò che è apparso, sinora, veramente rottamato: il presunto primato antropologico di una classe politicante che viene da lontano, pensava di restare in cima ai pensieri del «popolo» chissà sino a quando  e che, invece, col governo Leopolda, è il primo soggetto a dover cambiare verso radicalmente. L’assurdo è che l’ircocervo piddino si candida unito nella lotta ad una tale umiliante sopravvivenza adducendo che solo uno stato di necessità ha reso il governo appena votato come l’ultima trincea per evitare qualsiasi mutamento ideale e comportamentale.

Gli stessi giornali che hanno visto in Renzi l’uomo della provvidenza senza pudore verso un passato che non andrebbe mai dimenticato, ora cincischiano nel giudicare Renzi un giovanotto di buona volontà, ottimo comunicatore, politicamente acerbo e, dunque, immaturamente esposto ai mutevoli umori di corporazioni che improvvisamente si rendono conto che lo Stato è qualcosa di più impegnativo dei loro contraddittori desideri e nessun mago Merlino può liberarlo dall’enorme dissesto in cui ora esso si trova per eccesso di ideologismo ottocentesco e per una burocratizzazione estrema da socialismo realizzato.

Adesso ci si accorge che, almeno da un anno a questa parte, si è continuato ad errare ritenendosi invece su una “linea giusta”; e se ne attribuisce la colpa ad un ragazzotto ambizioso che, invero, da anni andava dicendo che la linea del Pd era tutta storta, ingiusta, meritevole di rottamazione. Adesso lo si vota perché non vi sono altre alternative; e tuttavia si rimprovera a Renzi d’essere un uomo solo che, senza di loro, non ha futuro. Ma loro, i tanti che vantano di comporre la maggiore adunanza di popolo che esisterebbe in Italia, non hanno dato a Renzi una fiducia assoluta, bensì soltanto temporanea, transitoria, non indicando neppure i contorni eterei di una eventuale alternativa. È in quel vaso di creta, colmo di serpenti velenosi chiamato Pd, che occorre, invece, cercare di vedere se esista ancora qualcosa di serio: anche a costo di farlo implodere  e di smettere di considerare la politica italiana come cosa propria.

 

Il paradosso degli assensi dissenzienti su Renzi

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