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La Cina continua la sua strategia di pianificata penetrazione nei Paesi ricchi di risorse, specialmente per quei minerali classificati come ‘critici’ per gli obiettivi di decarbonizzazione globali e di cui già Pechino controlla le supply chain.

Nel caso del litio, l’oro bianco essenziale per la manifattura di battere elettriche, le aziende cinesi hanno investito negli scorsi anni in numerosi progetti esteri, localizzati principalmente tra Cile, Argentina, Bolivia (nel cosiddetto ‘Triangolo del Litio’) e in Australia, approfittando della mutua interdipendenza per l’estrazione e la raffinazione.

Si tratta di una corsa per i giacimenti più promettenti, dal momento che seppur negli ultimi anni le riserve di litio siano aumentate rispetto al 2018, proprio per le previsioni della domanda di batterie per il mercato EV e degli accumulatori stazionari aumentata più del 100% nel 2022 secondo i dati di Benchmark Minerals Intelligence, al momento i depositi commercialmente in rampa di lancio rimangono limitati. Inoltre, le capacità di raffinazione del minerale sono per il momento fortemente concentrate in Cina (59%) che rimane il paese che consuma la maggior parte del litio prodotto a livello globale.

Seppur dotata dell’8% delle riserve globali, secondo i dati dello US Geological Survey, e responsabile di circa 19.000 tonnellate metriche di litio nel 2022, la Cina rimane fortemente dipendente dai mercati esteri per sostenere la produzione di batterie interna dal momento che l’estrazione interna dai minerali di lepidolite rimane più costosa rispetto alle attività minerarie sudamericane ed australiane.

Tuttavia, le recenti tensioni geopolitiche e la necessità di Stati Uniti ed Unione Europea di diversificare gli approvvigionamenti dalla Cina hanno reso più complesse le operazioni di Pechino nei mercati ritenuti più consolidati. In Australia, il governo ha bloccato di recente alcune acquisizioni di entità cinesi in progetti minerari, così come il Canada sul litio. Il Messico ha minacciato di revocare le licenze a Ganfeng Lithium mentre il Cile di Gabriel Boric ha annunciato una nuova legge mineraria nazionale per riscrivere i rapporti di forza tra Stato e imprese straniere, con l’obiettivo di trattenere il valore aggiunto delle riserve minerarie.

Spinta da questo scenario di crescente “nazionalismo delle risorse” nei Paesi in cui la pressione politica occidentale è, ad entità variabile, ancora evidente la Cina ha deciso di rivolgersi al continente africano contando comunque su decenni di relazioni politico-commerciali. È il caso del cobalto e del rame nella Repubblica Democratica del Congo, ma non solo. Qui, la longa manus delle aziende cinesi, supportate dal governo, è arrivata senza la storica avversità verso un contesto socio-politico considerato troppo rischioso dalle controparti americane ed europee ma che ora lamentano un vistoso ritardo.

Un ritardo che, in generale, è evidente se si considera nel complesso il mercato delle materie prime critiche dove i rischi associati all’estrazione/raffinazione (sociali, ambientali, geopolitici) tengono troppo lontano gli investitori, ha ammonito BlackRock, nonostante i mega profitti registrati dai grandi colossi del mining come BHP, Rio Tinto, Glencore. Anche l’International Energy Agency (Iea) nel report dedicato lo scorso maggio ha avvertito che, nonostante i piccoli progressi registrati nel 2022, il gap tra investimenti upstream e annunci downstream (manifattura di batterie, EV e tecnologie verdi) rischia di essere troppo ampio. O quantomeno lasciato troppo alla mercé di pochi paesi, come la Cina.

Rystad Energy, società di ricerca e consulenza nel settore energetico, prevede che l’80% della crescita di produzione di litio in Africa nei prossimi anni originerà da 4 paesi che sono, tuttavia, tra i primi 30 paesi più instabili del mondo e che spiega la reticenza degli investitori. Secondo le stime di Trafigura, trader e multinazionale attiva nella produzione e commercio di materie prime, la produzione di litio dall’Africa (dalle 40,000 tonnellate previste per quest’anno) crescerà a 497,000 in litio carbonato equivalente (LCE) entro il 2030.

Ecco perché lo Zimbabwe è diventato un obiettivo sensibile. Il paese, che detiene 310.000 tonnellate metriche di riserve di litio (circa l’1% a livello globale), ha prodotto soltanto 800 tonnellate circa ma dispone di un enorme potenziale. Proprio per questo il governo locale lo scorso dicembre aveva vietato l’esportazione di litio grezzo con l’obiettivo di beneficiare della domanda in crescita e trattenere il minerale per ulteriore raffinazione, sviluppando l’industria e creando posti di lavoro. A prezzi spot, a dicembre del 2022, al picco nella risalita dei prezzi che si è registrata a partire dalla fine del 2021, una tonnellata di idrossido di litio (materiale utilizzato nella manifattura dei catodi delle batterie) valeva circa $49,000. È chiaro che i prezzi del litio non sono uniformi, dipendono molto da regione e dalle modalità di contrattazione, ma si tratta tuttavia di un’opportunità di mercato enorme per i paesi ricchi di risorse. E come detto, i depositi di qualità sono scarsi, in un mercato in forte crescita, dunque il potere negoziale dei governi nazionali nei confronti delle imprese è in teoria più forte per strappare termini favorevoli.

Il Base minerals export control act è stato infatti concepito – e subito diventato un precedente importante per gli altri paesi africani – per evitare che il valore aggiunto venga perso e alle comunità locali lasciato il fardello delle ripercussioni sociali e ambientali legate all’estrazione. La legge stabilisce che il 5% delle royalty vengano corrisposte sul litio esportato, ma metà in cash mentre l’altra metà in materiali processati.

Nei primi nove mesi di quest’anno, lo Zimbabwe ha incassato $209 milioni dalle esportazioni di litio secondo le stime riportate dal ministro delle Miniere, Zhemu Soda, nella giornata di mercoledì. Il litio è destinato a diventare il terzo metallo per valore sull’export, dopo oro e i metalli del gruppo del platino che insieme nel 2022 hanno totalizzato quasi $5 miliardi.

Un ruolo preponderante in questa crescita l’avranno gli investimenti di Pechino. Infatti, alle aziende cinesi sono state riconosciute le licenze estrattive che potranno così attivare un flusso di investimenti di circa $2.79 miliardi nel paese africano per lo sviluppo dei siti e delle necessarie infrastrutture logistiche ed energetiche. Rispetto allo scorso anno, si tratta di un amento di dieci volte quanto già annunciato lo scorso anno e che fa impallidire gli investimenti dei rivali arabi con soli, si fa per dire, $498.5 milioni.

Parliamo di Zhejiang Huayou Cobalt, azienda leader nell’estrazione e lavorazione del cobalto nella RDC. Huayou ha inaugurato un impianto di processazione di litio, con una capacità di circa 450,000 tonnellate di LCE, vicino alla miniera di Arcadia che ha rilevato dall’australiana Prospect Resources per $422 milioni lo scorso anno. Di Chengxin Lithium Group che ha commissionato un impianto industriale simile nella miniera di Sabi Star per una capacità di 300,000 tonnellate. Infine, Sinomine Resource Group, conglomerato che opera in più mercati, ha acquisito una delle miniere di litio più antiche del paese da Bikita Minerals per circa $180 milioni.

A favore delle aziende cinesi giocano sicuramente una flessibilità finanziaria per via dei molti legami con istituti di credito controllati dal Partito o entità statali, oltre al necessario know-how soprattutto se si tratta di esportare tecnologie per la raffinazione. Proprio perché ritenuto forse il principale collo di bottiglia della filiera esposto ai rischi geopolitici, questo segmento sta diventando prioritario anche per aziende e governi occidentali più inclini a favorire il reshoring verso paesi ritenuti meno rischiosi e in prossimità dei mercati di sbocco, come dimostra il caso del Marocco e gli investimenti coreani.

Nel caso del litio, il crollo dei prezzi che si sta registrando in questi ultimi mesi non lascerà troppo spazio di manovra agli investitori privati e alle singole aziende. Il grosso dell’offerta rimarrà sulle spalle dei progetti consolidati in Australia e in Sud America e delle miniere brownfield, ovvero in grado di supportare eventualmente un’espansione della produzione già in essere. Ecco perché, di fronte alla volatilità dei prezzi, serve una pianificazione a medio-lungo termine per evitare che i giacimenti più promettenti finiscano per essere assicurati dalle aziende cinesi che concordano, in via prioritaria, contratti di fornitura con clienti nazionali prima di rivolgersi ai mercati spot (che rimangono una fetta molto marginale nel caso specifico del litio).

Gli Stati Uniti in questo senso, con la Minerals Security Partnership (MSP), stanno cercando di ovviare a questo scenario puntando su progetti minerari (anche nazionali, tramite il Defence Production Act) per l’approvvigionamento sicuro e sostenibile di litio, terre rare e grafite (tre metalli su cui la Cina controlla direttamente e indirettamente la filiera). Non solo: un memorandum of understanding è stato firmato a gennaio di quest’anno tra il Dipartimento di Stato, la DRC e lo Zambia per lo sviluppo della filiera delle batterie locale. Inoltre, in Ghana sono in rampa di lancio alcuni progetti estrattivi di litio che non coinvolgono aziende o industrie cinesi, mentre altri paesi alleati come il Giappone hanno fatto ricorso ad un playbook consolidato con il coinvolgimento diretto di agenzie preposte, come il JOGMEC, per supportare gli investimenti.

Colmare questo divario rimane cruciale non solo per assicurare la diversificazione delle forniture, ma anche per rilanciare una proposta di sostegno allo sviluppo nei Paesi ricchi di risorse, di cui anche l’Italia, Paese partner della MSP, vuole farsi portavoce per una visione che abbraccia la transizione energetica e le opportunità sul continente in tutte le sue sfaccettature.

Litio, la mano della Cina sullo Zimbabwe (ma occhio agli Usa)

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