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La parola chiave dell’anno borsistico appena trascorso è «tapering». Una vera e propria ossessione, capace di oscurare qualsiasi altra preoccupazione. Lo evidenzia benissimo l’andamento dell’indice Ftse Mib di Piazza Affari. Quando il 22 maggio il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha annunciato l’intenzione di iniziare il processo di uscita dal programma di acquisto di asset che avveniva al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese, i mercati hanno reagito malissimo. E per un attimo si è temuto un crollo dei mercati emergenti capace di contagiare la ripresa in atto in quelli sviluppati.

LA DANZA DEL TAPERING

Per fortuna non è andata così, Bernanke ha aggiustato la rotta, facendo capire che il tapering non era poi così imminente e a poco a poco i mercati si sono calmati per poi riprendere a salire. Guidati però da un solo faro: il tapering, appunto. Ogni dichiarazione di esponenti della Fed, anche di quelli che non votano al comitato di politica monetaria, e ogni dato macroeconomico in arrivo dagli Usa venivano letti alla luce del dilemma «tapering sì o tapering no?». Con il risultato paradossale che i segnali di debolezza dell’economia americana venivano salutati da rialzi delle borse perché allontanavano l’inizio della riduzione di acquisti di asset. «Gli investitori dovrebbero smetterla di parlare di tapering», è sbottato agli inizi di dicembre Matthew Hornbach, economista di Morgan Stanley.

L’ANNUNCIO DI BEN

E pochi giorni dopo, il 18 dicembre, Bernanke l’ha accontentato annunciando a sorpresa il tanto temuto tapering, riducendo di 10 miliardi al mese gli acquisti di asset. Ancora più sorprendentemente Wall Street ha reagito con i nuovi record di tutti i tempi del Dow Jones e dello S&P 500, come se si fosse liberato da un’ossessione. Le borse hanno cominciato a ragionare secondo logica; se si riducono gli stimoli vuol dire che l’economia americana comincia a stare in piedi da sola. E infatti pochi giorni dopo è stato diffuso il dato sul pil Usa nel terzo trimestre, rivisto al rialzo al +4,1%; una crescita notevole, dovuta anche a una ripresa dei consumi, testimoniata in seguito dai primi buoni dati sulle vendite al dettaglio nel periodo natalizio. E così il 2014 può cominciare nel segno di una ripresa americana finalmente sostenuta.

YELLEN GARANZIA DI POLITICHE SUPER ACCOMODANTI

Il tapering non dovrebbe più destare preoccupazioni perché la maggioranza degli analisti è convinta che a ogni riunione del Fomc gli acquisti di asset verranno ridotti di 10 miliardi al mese, fino al loro esaurimento verso la fine dell’anno. Mentre l’arrivo di Janet Yellen alla guida della Fed al posto di Bernanke è una garanzia che le politiche della banca centrale americana resteranno comunque super-accomodanti. Quanto alla ripresa Usa, essa è basata su un fattore non contingente come le scoperte di petrolio e di shale gas. A questo si aggiunge la lenta ma costante reindustrializzazione del Paese, mentre finalmente si cominciano a vedere segnali di ripresa dei consumi. E così il Fondo Monetario Internazionale è già pronto a rivedere al rialzo le stime sugli Usa.

CHE SUCCEDE IN GIAPPONE

Buone notizie arrivano anche dal Giappone, dove l’Abenomics, ovvero la politica di fortissimi stimoli all’economia intrapresa dal premier Shinzo Abe, coadiuvato dal governatore della Banca centrale Haruhiko Kuroda, sta avendo un successo maggiore del previsto, come testimonia il dato di novembre sull’inflazione, salita sopra l’1% per la prima volta in cinque anni. È di buon auspicio anche il fatto che i mercati emergenti abbiano retto bene all’inizio del tapering. Certo, alcuni Paesi restano rischiosi, come la Turchia, dove l’instabilità politica sembra destinata ad aumentare in misura tale da avere conseguenze negative anche sull’economia, ma in generale il bel tempo sembra essere tornato anche da quelle parti.

L’INCOGNITA CINESE

Qualche incognita la presenta invece la Cina. Il rallentamento è in corso ed è voluto. La dirigenza comunista sta infatti attuando il delicatissimo passaggio da un’economia trainata dalle esportazioni a una basata invece sui consumi interni. A questo si aggiunge la lotta alla corruzione, che nel breve periodo porta alla diminuzione di certe spese, in particolare quelle voluttuarie. Finora il presidente Xi Jinping ha saputo ben gestire questa lunga fase di transizione appena iniziata. Non mancano i profeti di sventura, come per esempio John-Paul Smith, strategist azionario di Deutsche Bank, secondo il quale in Cina «c’è il potenziale per una trappola del debito delle società industriali che potrebbe scatenare una crisi finanziaria all’inizio del 2014».

CATASTROFISMI FALLITI

È vero che la trasparenza non è uno dei pregi della Cina. E quindi brutte sorprese non sono mai di escludere. Ma i catastrofisti si erano esercitati anche l’anno scorso sul colosso asiatico, venendo clamorosamente smentiti. A livello globale quindi il 2013 è andato meglio del previsto ed è finito con il vento in poppa negli Stati Uniti. Come sostiene Goldman Sachs (ed è l’opinione corrente), nel 2014 «la crescita dei mercati sviluppati continuerà a migliorare e i loro mercati azionari continueranno a beneficiare di questa situazione». È diffusa l’opinione che Wall Street e la borsa di Tokyo continueranno a fare faville.

INCOGNITA EUROPA

Tutto bene allora? Purtroppo no, visto che la vera incognita del 2014 è l’Europa. O, meglio, Eurolandia, visto che il Regno Unito è in grande spolvero. Credit Suisse, per esempio, prevede per i sudditi di Sua Maestà una crescita del pil fra il 3 e il 3,5% nel 2014, mentre le ultime stime della Commissione Ue vedono per Eurolandia un incremento dell’1,1%. Una differenza abissale. Che dalle parti di Londra il sentiment sia baldanzoso lo dimostra il report del Centre for Economic and Business Research, secondo cui nel 2028 il Regno Unito avrà superato non solo la Francia ma addirittura la Germania, diventando la prima economia del Vecchio Continente. Con una punta di malizia il Centro studi britannico sottolinea che la Germania potrebbe evitare il sorpasso «in caso di fine dell’euro e di ritorno al marco». Senza arrivare a questi estremi, per il 2014 tutti vedono Eurolandia come la palla al piede di un’economia mondiale pronta a spiccare il volo per chiudere definitivamente il lungo capitolo della crisi iniziata nel 2007.

LA BCE CON IL FRENO TIRATO

Gli economisti delle più grandi banche d’affari sanno benissimo che Usa e Giappone sono usciti dalla crisi grazie alle gigantesche iniezioni di liquidità attuate dalle loro banche centrali. Iniezioni che non hanno portato inflazione. Queste iniezioni sono però precluse alla Bce per motivi statutari. Lo statuto potrebbe anche essere aggirato, peccato che non vi sia la volontà politica di farlo, soprattutto, come al solito, da parte della Germania. E così per il 2014 Eurolandia si dovrà accontentare di una mini-ripresa troppo simile a una stagnazione, mentre Usa e Giappone sembrano destinati a correre.

IL QUADRO ITALIANO

Meglio stendere un velo pietoso sull’Italia, per la quale, per esempio, Ernst & Young prevede una crescita dello 0,2%, mentre Standard & Poor’s la stima allo 0,4%%. Davvero troppo poco, basta un stormir di foglie per trasformarla in recessione. In uno scenario del genere il meglio che si possa sperare è che la disoccupazione non aumenti. La situazione è deprimente e si comincia a vedere il mese di maggio accompagnato dal segnale di pericolo. Sarà il momento delle elezioni europee. Se ci sarà una forte affermazione dei partiti euroscettici, come il Front National di Marine Le Pen in Francia o il Movimento 5 Stelle in Italia, è probabile che i mercati tornerebbero a mettere in discussione la sopravvivenza dell’euro. Questa è la nuvola nera che incombe sui mercati nel 2014. Che se non fosse per l’incognita europea si annuncerebbe nel migliore dei modi per Piazza Affari, che nel 2013 ha visto salire il Ftse Mib del 16,5% al 27 dicembre grazie al traino di Wall Street. L’accelerazione della ripresa globale rende plausibile la continuazione del rally dei titoli del lusso made in Italy. Resta il rammarico per il fatto che i capi prodotti verranno indossati all’estero e non in Italia.

2014, incognita euro

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