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Come diceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa in Italia, non solo in Sicilia, cambia tutto perché non cambi mai niente. In queste ultime ore le stesse cose, i soliti problemi, le medesime traversie sono tornate a regnare nello spazio pubblico.

IL CONVITATO DI PIETRA

Il governo, schiacciato nella morsa dei due partiti che faticosamente coabitano nella maggioranza, è strattonato a destra e manca, neanche a farlo apposta, proprio dal perentorio dibattito sulle unioni civili e sull’immigrazione. E l’affidabilità complessiva della classe politica è sottoposta al giogo permanente della capillare indagine che la magistratura sta svolgendo adesso sulle amministrazioni regionali. Il tutto nella consueta salsa anti casta che latente minaccia dominando, come il convitato di pietra nel Don Giovanni di Mozart.

Ovviamente si tratta di problemi diversi: alcuni di ordine strettamente politico, altri di matrice puramente legale. Quello che appare con certezza è la crisi profonda del sistema, che non è esattamente solo una passeggera fragilità della dirigenza, ma l’agonia estenuante della Repubblica Italiana.

LA SPINTA VERSO IL PECULATO

Si può dire che vi sono nella società tendenze contraddittorie che non collimano per niente tra loro. Da un lato, tutti sono consapevoli che una crisi di governo sarebbe oggi poco razionale, ma, allo stesso modo, tutti, non soltanto Renzi, sanno molto bene che l’azione propulsiva dell’esecutivo è ormai spenta dalla scarsa componibilità politica di PD e NCD. Tutte le esigenze di controllo sull’operato dei politici sono chiaramente prioritarie, ma, d’altro canto, nessuno ignora che è difficile cambiare una consolidata mentalità popolare che spinge gli eletti verso il peculato.

IL CASO FARAONE

Ora, su quest’ultimo punto, l’osservazione fatta da Davide Faraone, entrato insieme con altri ottantatré consiglieri siciliani nel registro degli indagati per uso privato dei finanziamenti pubblici, rivela perfettamente il problema. Il responsabile Welfare del PD ha detto di non temere gli accertamenti perché ha utilizzato i fondi in questione, 3300 euro in tutto, unicamente per “fare attività politica”.
Ma cosa vuol dire realmente fare attività politica? Se, ad esempio, distribuire prebende e dare il segnale che si è potenti è un fatto che culturalmente è giudicato essenziale dai cittadini per assicurare un consenso personale, come si fa a negare che figuri come Fiorito, i quali hanno instaurato una gestione sistematica della corruzione, abbiano fatto politica in modo democratico?

MORALISMO DISFATTISTA

Il problema è grave e controverso. Bisogna capire cosa vogliamo che sia la politica nel nostro Paese, correndo il rischio della scelta e accettando poi le conseguenze. Se da un lato vi è la magistratura che da vent’anni non fa altro che smascherare colpevoli, ghigliottinandoli con la lama della legge e dei media in pubblica piazza, dall’altro abbiamo il montare della povertà, una debolezza istituzionale imbarazzante e un’ondata anti politica simile solo a quella della rivoluzione francese che non a caso è finita nel Terrore. Il moralismo disfattista di giudici e spazzini è fine a se stesso e non sta producendo niente di buono; lacera soltanto il tessuto connettivo che tiene fragilmente insieme a fatica società civile e classe politica, amministrativa e rappresentativa. Il contribuito del grillismo, tanto per fare nomi, in questa Legislatura, dal punto di vista costruttivo, che cosa ha prodotto? Assolutamente nulla. Analogamente all’IDV il destino del M5S, in definitiva, è già segnato: sparire o finire arrestati individualmente.

COSA FERMA RENZI

Come non vedere che tutta questa emorragia sottostante è la causa vera che impedisce a Renzi, che di consenso ne ha fin troppo, di varcare il portone di bronzo della stanza dei bottoni. Il segretario del PD continua a dire che non vuole un rimpasto, non vuole responsabilità di Governo, perché sa bene che lì comincerebbe la sua fine, divenendo conforme a un sistema che la Magistratura è chiamata ad annientare rigorosamente, operando contro la corruzione ma anche contro la democrazia.
Queste nuove indagini, in effetti, mostrano limpidamente la iattura che ricade sul Paese ogni volta che qualcuno pensi di governarlo. Altro che passaggio generazionale.

La democrazia, a ogni buon conto, non è mai un sistema perfetto, genera sempre corruzione, produce mobilità sociale e quindi illegalità. Ma la democrazia, che vive di una condivisione popolare d’interessi, è l’unico strumento che permetta di restare liberi sommando insieme le forze comunitarie. Non garantisce certo immobilismo, ma promette diffusione della ricchezza e civiltà.

L’HUMUS DELLA MAGISTRATURA

Come diceva Bartolomeo de Las Casas, un sistema democratico garantisce la libertà dei cittadini, e la capacità di un popolo di essere causa prima e ragione ultima del potere politico. Per funzionare, la politica deve però necessariamente distribuire risorse, creando una circolarità che produca consenso stabile, sotto leggi che ne garantiscano lo sviluppo. Diversamente resta solo l’idea formale della democrazia che è la più feroce forma di autoritarismo.
In Italia andiamo da qualche tempo controcorrente. Dal 1992, infatti, i partiti sono stati distrutti, e dal 2001 la politica ha perso credito perché non ha più la possibilità di distribuire mezzi e lavoro. Il prodotto è una ribellione popolare di massa verso tutto e tutti, e una Magistratura che sorveglia che la politica non abbia il suo humus naturale per rigenerarsi. Che squallore!

LA DITTATURA DEGLI ONESTI INQUISITORI

I fatti sono sotto gli occhi di tutti. Renzi ha cominciato a sentire il fiato sul collo. Oggi è Faraone sotto inchiesta; domani saranno i suoi ministri, i suoi consiglieri, i suoi finanziatori. Stessa cosa vale per Alfano, già sotto osservazione solo per una telefonata a Ligresti. Se vogliamo avere una Repubblica di onesti, va bene, ma dobbiamo abbandonare definitivamente la democrazia preferendo la dittatura degli onesti inquisitori.
Chiediamoci insomma: possiamo pensare di essere l’unico Paese democratico al mondo in cui un politico non può fare politica senza finire in galera?
Bisogna scegliere. O la dittatura giustizialista dell’anti casta, oppure la democrazia, con la complessità che essa richiede, tollerando quel minimo di corruzione che è indispensabile affinché la sovranità sia compatibile con il consenso e l’interesse di tutti.
E’ brutto dirlo, ma nello scontro tra magistratura e corruzione, vince la povertà e perde la democrazia. E, di certo, si vive meglio ricchi in una democrazia imperfetta che poveri sotto una dittatura perfetta.

Cosa insegna il caso Faraone

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