L’Iraq è un Paese in crisi e sempre più schiacciato tra Iran e Usa. Alcune milizie sciite attaccano di nuovo l’ambasciata americana di Baghdad e sfruttano il momento simbolico, mentre altre cercano legittimazione popolare prendendo una strada lontana da Teheran
Alle nove di domenica sera (ora locale) una salva di razzi Katyusha è caduta nel quartiere della Green Zone di Baghdad in cui si trova l’ambasciata americana: tre missili sono finiti nei pressi del compound fortificato della postazione diplomatica, almeno uno ha colpito un palazzo e distrutto un appartamento. Un altro edificio è stato con ogni probabilità colpito dal sistema anti-areo di cui è dotata l’ambasciata, il C-Ram, ed è questa l’immagine più simbolica dell’Iraq, letteralmente intrappolato tra Stati Uniti e Iran, e in cerca di evoluzioni.
IL CONTESTO
Ad attaccare il fortino diplomatico americano è molto possibile che siano state le milizie collegate a doppio filo con i Pasdaran. Non è la prima volta che succede, anzi è una costante da diversi mesi. E adesso arriva un momento particolarmente delicato che fa da sfondo per il ripetersi di certi eventi. C’è il cambio di amministrazione a Washington, e queste milizie ideologizzate dal peso narrativo dell’internazionale sciita sono molto legate alla simbologia dei gesti; amano lasciare messaggi, di benvenuto e di addio. C’è l’anniversario dell’uccisione del mitologico generale iraniano Qassem Soleimani, stratega delle operazioni esterne della teocrazia e creatore del sistema delle milizie con cui i Pasdaran mantengono la presa sulla regione (Soleimani è eliminato con un missile lanciato da un drone americano mentre costeggiava la strada attorno all’aeroporto di Baghdad mentre pare avesse un appuntamento per mobilitare i suoi proxy in un attacco all’ambasciata Usa in Iraq). C’è da vendicarsi per l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh, scienziato considerato in cima al programma nucleare clandestino dell’Iran ucciso in un’operazione probabilmente israeliana assistita dagli Usa. C’è il ritiro annunciato dall’attuale amministrazione di 500 militari statunitensi dall’Iraq: un rientro che il presidente uscente pensa di lasciare in eredità contro le “endless war”, le guerre senza fine odiate da molti americani perché non portano ritorni al Paese ma solo costi (in termini economici e di vite umane).
LO SCONTRO CON L’IRAN, VIA MILIZIE
La diatriba tra gli Stati Uniti e le milizie sciite, che si muovo molto spesso su input di Teheran, è vecchia. È uno dei temi laterali per cui gli Usa hanno abbandonato il Jcpoa, l’accordo per il congelamento del programma nucleare del 2015, e uno di quelli che molti strateghi di Washington vorrebbero mettere sul tavolo in un futuro dialogo – che l’amministrazione Biden sembra molto interessato a portare avanti anche come vettore strategico per contrastare le ambizioni turche. Quelle milizie in Iraq erano una forza devastante durante la guerra di occupazione una ventina di anni fa, e sono state molto utili – quanto problematiche – nel combattere lo Stato islamico tra il 2014 e il 2016. Sono forze concettualmente ostili all’Occidente – che chiamano il “Grande Satana” come la teocrazia iraniana insegna – e si muovono nel Paese (ma anche in Siria, Afghanistan e soprattutto in Libano, come una mafia). Un paio di mesi sono entrate apertamente nella partita Washington-Baghdad quando il segretario di Stato, Mike Pompeo, aveva minacciato apertamente gli alleati iracheni che se non le avessero fermate avrebbe chiuso l’ambasciata, che significa chiudere le relazioni e dunque chiudere i rubinetti (che a sua volta significa un colpo duro per la sicurezza e per le finanze già piuttosto in crisi, come fotografa oggi il Financial Times). E l’Iran era sembrato percepire il messaggio: le milizie avevano accettato una sorta di tregua – tutto non ufficiale, chiaramente, perché Teheran non esplicita l’eterodirezione generale su molti dei gruppi iracheni.
LE MILIZIE NON SONO UNITE
La Kataib Hezbollah, una delle principali milizie e motore dell’organizzazione ombrello al-Ḥashd ash-Shabī, aveva proposta una sorta di tregua, che evidentemente domenica è saltata, complici quelle ragioni con cui si è ricostruito il contesto qualche riga fa. Inoltre ci sono anche divisioni interne e lotte competitive tra i gruppi iracheni. Le milizie sciite in Iraq infatti non sono un gruppo omogeneo, un corpo compatto, ma entità che concorrono per il controllo di roccaforti di potere e soprattutto di interessi. A inizio dicembre per esempio alcune milizie collegate alla guida spirituale dell’influente Grande Ayatollah Ali Sistani ha annunciato l’uscita dalla mobilitazione al-Ḥashd ash-Shabī – nata per combattere l’Is, e restata attiva come coordinamento utile anche a Teheran. Sistani, chierico iraniano novantenne basato a Najaf (al centro dell’Iraq, la terza città santa dopo Medica e Mecca per gli sciiti), è una delle personalità più importanti dello sciismo mondiale ed è da tempo in contrasto con la Repubblica islamica. La decisione riguarda questa spaccatura, tanto che le milizie a lui vicine hanno annunciato di volersi separare dalle altre, considerate troppo asservite ai comandi della fazione più aggressiva dei Pasdaran (legata all’industria militare, focalizzata nel tenere con gli Usa un ingaggio continuo a bassa intensità).
L’IRAQ SCHIACCIATO
Per i sistaniani il problema non è tanto quell’ingaggio, ma il fatto che questo possa far perdere credito alle milizie agli occhi della gente – quando invece, come ogni organizzazione para-statale, hanno bisogno del supporto popolare in maniera esistenziale. Quello che succede da oltre un anno è che le milizie in Iraq si stanno dividendo, nel sud sciita (a Karbala, Nassiriya, e anche a Najaf) ci sono state manifestazioni popolari – che i Pasdaran si sono occupati di reprimere personalmente – e molte fazioni contestano la presa sul potere di gruppi guidati da signori della guerra, sostanzialmente criminali che pensano all’arricchimento molto più che alla causa idealista e all’assistenza popolare. La mossa di Sistani è importante perché fu una sua fatwa del 2014 che creò la al-Ḥashd ash-Shabī, la Forza di mobilitazione popolare contro il terrorismo sunnita del Califfato. L’ayatollah da tempo contesta chi ha trasformato la vittoria contro le forze baghdadiste in un potere politico per arricchimento personale; questa campagna partita già a fine 2018 non è da confondere come un’azione idealista, ma è anche una mossa per sganciarsi da quelle dinamiche di cui i cittadini (soprattutto i giovani) iracheni sono stufi, e seguire così la richiesta popolare di liberarsi dall’Iran. Sistani prova a dare su questo respiro politico e consenso ai suoi gruppi; in certe dinamiche poco spazio c’è per scegliere gli Usa come alternative a Teheran comunque.
(Foto: Visita dei coordinatori iraniani alle al-Ḥashd ash-Shabī durante la lotta all’Is)