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Appalti, l’Antitrust rilancia lo stop al codice e fa imbizzarrire l’Anac (e non solo)

Appalti

Adesso, sospensione o no, il problema rimane. Come farà l’Italia a spendere, possibilmente bene, 200 miliardi di euro senza una disciplina dei contratti pubblici che funziona? La risposta a questa domanda, inevitabilmente, spetterà a Mario Draghi, insieme ai ministri competenti, a partire dal titolare delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili Enrico Giovannini

L’Antitrust non lascia, ma anzi raddoppia. L’Autorità garante per la concorrenza e il mercato non ha alcuna intenzione di ingranare la retromarcia sulla proposta di sospendere il codice degli appalti che tanto sta facendo discutere gli addetti ai lavori, gli imprenditori e gli esperti. L’idea, avanzata dall’authority un paio di settimane fa nella segnalazione inviata a Mario Draghi, è stata ribadita oggi con forza dal presidente Roberto Rustichelli.

“Poiché viviamo una situazione eccezionale, non possiamo applicare regole normali in un periodo che normale non è”, ha affermato al Corriere della Sera il magistrato, che poi ha spiegato: “Come l’Europa ha sospeso la normativa sugli aiuti di Stato, noi proponiamo, in attesa dell’auspicata semplificazione, di sospendere temporaneamente il codice degli appalti e di utilizzare le direttive europee, che sono direttamente applicabili”. Punto. Nessun ripensamento. Peccato, però, che la proposta sempre stamattina sia stata nuovamente contestata dal presidente dell’Anac Giuseppe Busia, che già nei giorni scorsi si era detto contrario. “Il rischio è che con la sospensione del codice si generi un vuoto normativo, col risultato di aumentare la paura della firma da parte di chi deve gestire le gare”, ha commentato con Il Mattino il successore di Raffaele Cantone, arrivato alla guida dell’Autorità Anticorruzione lo scorso settembre.

Il confronto  – che, va sottolineato, si sta svolgendo con toni costruttivi lontani anni luce dagli eccessi polemici in cui trascende il dibattito pubblico – evidenzia la profonda divergenza di opinioni che si registra tra due attori chiave del settore, su un tema assolutamente rilevante e in una fase storica che definire fondamentale è poco. Sull’accesso e l’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu l’Italia si gioca in pratica l’osso del collo – per citare l’espressione recentemente usata da Enrico Letta a proposito della corsa del Partito democratico a Roma – ed è chiaro che non possa non essere considerato preoccupante questo clima di incertezza in materia di appalti pubblici. D’altronde, una volta che il Piano italiano di ripresa e resilienza sarà stato approvato, ci troveremo nella condizione di dover bandire gare e gestire procedure di aggiudicazione per miliardi e miliardi di euro. Il rischio che le cose possano andare in qualche modo male non dovrebbe esistere ma, vista l’atavica farraginosità e complessità del sistema vigente nel nostro Paese, non si può escludere che ciò avvenga.

Per garantire tempi certi alle procedure, ed evitare quindi il pericolo che le risorse del Recovery Fund restino incagliate nei meandri della pubblica amministrazione italiana senza essere spese (e dunque, alla fine, tornare a Bruxelles) è evidente che qualcosa vada fatto. Il problema, semmai, è che cosa. L’Antitrust propone appunto di sospendere il codice e di applicare al suo posto le direttive europee in materia, con il contestuale impegno di governo e Parlamento a varare nel medio periodo una disciplina degli appalti completamente nuova, più semplice e comprensibile. Suggerimento che, comunque la si pensi, ha avuto certamente il merito di sdoganare il tema prima confinato alle discussioni tra esperti e farlo entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico.

Ciò detto, la proposta, un po’ inevitabilmente visto il suo portato dirompente, ha prodotto alcune adesioni ma anche numerose critiche. Tra le prime si deve certamente annoverare la posizione di una parte del mondo dell’accademia e delle professioni legali, come ha recentemente detto al nostro giornale il professore di Legislazione delle opere pubbliche dell’Università di Roma Tor Vergata e avvocato amministrativista Arturo Cancrini. D’altro canto un’idea simile l’aveva lanciata a febbraio anche il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi intervistato dal Sole 24 Ore: “È quello che sento dire dappertutto: che bisogna sospendere il codice perché ci blocca. Allora togliamo quello che non è previsto dalle direttive europee, il cosiddetto gold plating, e vediamo se funziona meglio. Se ce lo chiedono, siamo disposti a farlo”.

Contrario, invece, il mondo della rappresentanza imprenditoriale e sindacale. In questo senso Cgil, Cisl e Uil sono compatte, così come lo sono anche le organizzazioni che all’interno del mondo di Confindustria rappresentano i settori più riguardati dal codice degli appalti  e dalla proposta Antitrust. “Rischiamo una paralisi decisionale della pubblica amministrazione”, ha commentato ad esempio in questa intervista il presidente dei costruttori romani Nicolò Rebecchini. “Penso e temo sia inattuabile: affidare soltanto con le direttive Ue significherebbe non avere una copertura giuridica, ad esempio, su tutte le fasi di progettazione che non sono trattate dal legislatore europeo”, gli ha fatto eco il presidente di Oice, l’organizzazione che rappresenta le società di progettisti e ingegneri, Gabriele Scicolone. Fortemente contraria, lo abbiamo detto in apertura, è soprattutto l’Anac, che ha denunciato il vuoto normativo che si verrebbe a creare, il cui perimetro d’azione potrebbe risultare ristretto dall’eventuale sospensione del codice.

Sulla stessa lunghezza d’onda pure il vicepresidente di Ance Edoardo Bianchi (qui una nostra recente conversazione con lui), secondo cui il codice degli appalti del 2016 rappresenta ormai una sorta di simulacro: “Polemica ingiustificata, quella normativa di fatto praticamente non esiste più viste tutte le modifiche che sono intervenute nel frattempo”. Ovvero, solo per citare le più note, il decreto correttivo del 2017, lo Sblocca cantieri del 2019, il Semplificazioni del 2020 e pure il Milleproroghe del 2021. Quel che si dice un guazzabuglio di norme che il mercato ha subito e che i partiti – più o meno tutti, a partire dal Pd che lo approvò nel 2016 – hanno contribuito ad alimentare.

Adesso, sospensione o no, il problema rimane tutto. Come farà l’Italia a spendere, possibilmente bene, 200 miliardi di euro senza una disciplina dei contratti pubblici che funziona? La risposta a questa domanda, inevitabilmente, spetterà a Draghi, insieme ai ministri competenti, a partire dal titolare delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili Enrico Giovannini.



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