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Appalti e infrastrutture, la ricetta di Busia per la sfida del Pnrr

Busia

Intervista a tutto campo con il presidente dell’Autorità Anticorruzione, Giuseppe Busia, su tutti i principali temi che interessano il mercato delle infrastrutture e degli appalti: dalle competenze delle pubbliche amministrazioni al funzionamento delle regole del 2016, passando per il processo di riforma dell’attuale codice…

La vera chiave affinché il Recovery Fund italiano possa costituire un successo anche sotto il profilo delle opere pubbliche? “Il capitale umano: dobbiamo qualificare le stazioni appaltanti, inserire nuove energie nella pubblica amministrazione e aggiornare le competenze dei dipendenti pubblici”. Il disegno di legge delega sul nuovo codice degli appalti in discussione in commissione al Senato? “È generico, forse fin troppo. L’auspicio è che il Parlamento possa rinforzarlo”. Il ruolo dell’Europa in materia? “Oggi, alla luce del Next Generation Eu, è ancor più importante. L’Italia promuova il varo di un nuovo regolamento sui contratti pubblici che sostituisca le attuali direttive”.

Parola del presidente dell’Anac Giuseppe Busia, che in questa conversazione con Formiche.net ha affrontato tutti i principali temi che interessano il mercato delle infrastrutture e degli appalti (non solo) nel nostro Paese, dalle competenze delle pubbliche amministrazioni al funzionamento delle regole del 2016 e successive modifiche, passando per il processo di riforma dell’attuale codice, regolamento d’attuazione compreso, e per la disciplina vigente a livello europeo, fino ovviamente al rinnovato ruolo dell’Anac. Partendo da una considerazione di fondo, che Busia ha effettuato subito a inizio intervista: “È chiaro che in questa fase – nella quale il pendolo della storia si è spostato decisamente verso una nuova centralità dell’intervento pubblico – la disciplina degli appalti rivesta un ruolo ancor più rilevante”.

In che senso?

Gli appalti sono lo strumento attraverso il quale le pubbliche amministrazioni traducono gli obiettivi di politica pubblica in opere e servizi concreti, inserendo anche quegli ingredienti – quali la digitalizzazione o la sostenibilità – che sono ad esempio alla base del piano di ripresa e resilienza.

Quindi?

Oggi che le risorse messe a disposizione sono tanto preponderanti, tale ruolo strategico risulta anche accresciuto e i contratti diventano un moltiplicatore in grado di influenzare non solo le modalità con le quali si realizza la singola opera o servizio messo a bando, ma anche il resto del mercato, perché le imprese sono spinte a seguire tale indirizzo, al fine di cercare di intercettare le risorse pubbliche che comunque saranno offerte con tale impostazione.

Sono dunque, in pratica, lo strumento attraverso cui indicare al mercato la direzione da seguire?

Esattamente, oggi costituiscono più che mai un volano di sviluppo perché moltiplicano le risorse e traducono le politiche pubbliche previste nell’ambito del Pnrr.

In quest’ottica deve preoccuparci che gran parte degli interventi previsti dal Recovery Fund sia destinata a venire aggiudicata e realizzata secondo l’attuale normativa degli appalti che più di un limite ha palesato in questi anni?

All’attuale codice si imputano, a mio avviso, colpe che in alcuni casi neppure ha. È stato modificato un’infinità di volte e ciò ha creato un inevitabile effetto di spaesamento ai danni degli operatori ma, al contempo, è rimasto anche largamente inattuato. Lo definirei, da un lato, un cantiere sempre aperto e, per altro verso, un’opera incompiuta.

Vuol dire che sulla carta avrebbe potuto anche funzionare?

Significa innanzi tutto che la stabilità normativa rappresenta un valore fondamentale della cui importanza non ci dobbiamo mai dimenticare: offre certezza a tutti gli operatori, pubblici e privati, consentendo loro di programmare la propria attività.

Senza contare che alcune parti non sono state neppure attuate. Non è così?

E purtroppo sono quelle più innovative, come la digitalizzazione delle gare e la qualificazione delle stazioni appaltanti, alle quali stiamo provando a dare attuazione solo adesso. In ogni caso, è un’illusione credere che basti modificare le regole per cambiare le cose. Conta ancora di più la concreta applicazione e l’implementazione amministrativa, che richiedono però più tempo e pazienza della semplice scrittura delle disposizioni normative.

Mi scusi presidente Busia, ma allora il problema, se non dalle regole, da cosa è rappresentato? Dov’è che si annidano i rischi principali in ottica Pnrr?

L’elemento chiave è la qualificazione delle stazioni appaltanti dal punto di vista tecnico-organizzativo e delle competenze. In pratica, occorre che le pubbliche amministrazioni abbiano le spalle sufficientemente larghe per poter svolgere con successo l’attività di committenza che è affidata loro. E ciò non sempre accade nel nostro Paese.

Cioè ci sono stazioni appaltanti che non riescono a svolgere bene il loro ruolo?

Accade che possano avere problemi certo, ad esempio perché di dimensioni non adeguate. Per questa ragione è fondamentale investire sulla qualità delle amministrazioni pubbliche, innanzitutto sotto il profilo organizzativo. In quest’ottica, in virtù di un protocollo d’intesa siglato con il presidente del Consiglio Mario Draghi, stiamo lavorando come Anac all’individuazione di una serie di indici e di criteri per stabilire il grado di complessità dei contratti che le singole stazioni appaltanti potranno bandire e gestire.

Secondo quale logica?

Possiamo dire che in linea di massima le stazioni appaltanti più strutturate potranno occuparsi degli appalti più complessi mentre le altre dovranno aggregarsi tra loro oppure rivolgersi alle pubbliche amministrazione più grandi o alle centrali di committenza.

Ad esempio? 

I vaccini contro il Covid-19: giustamente, a mio avviso, ne abbiamo portato l’acquisto al livello più alto possibile, quello dell’Unione europea, per riuscire a contrattare ad armi pari con giganti internazionali quali le industrie farmaceutiche. Ecco, la sfida è trovare il livello giusto per ogni tipologia di acquisto che la pubblica amministrazione deve sostenere. E, quindi, per ogni appalto.

Che non vuol dire, immagino, portare tutto al livello più alto. O no?

Ci mancherebbe altro, in alcuni casi può essere certamente più efficiente e utile che l’appalto venga gestito da un comune anche piccolo oppure, per dire, da un’azienda sanitaria. Dipende dalla natura della prestazione e, per stare sul tema delle opere pubbliche, anche dalla rilevanza e dalla grandezza dell’intervento che si deve realizzare.

La professoressa di Roma Tre Luisa Torchia – per citare il nome di un’esperta della materia – afferma che per riuscire a qualificare davvero le stazioni appaltanti si debba procedere per blocchi, secondo una logica graduale. Che ne pensa?

Sono d’accordo, bisogna intervenire con il cacciavite e non a colpi di accetta, perché altrimenti, com’è accaduto peraltro finora, la qualificazione è destinata a rimanere solamente sulla carta e, dunque, scritta nei codici e nelle leggi senza però essere effettivamente applicata. Noi stiamo lavorando proprio in questa direzione, in un’ottica di gradualità volta a individuare, per le diverse classi di appalto, quale siano i requisiti dimensionali e di competenza adeguati a gestirlo. Questo serve anche a spingere le amministrazioni a migliorarsi nel tempo: se oggi non ho un’esperienza sufficiente o una organizzazione adeguata, posso costruirmela nel tempo, e così potermi impegnare negli appalti più complessi.

Organizzazione ma anche competenze dei singoli, giusto?

Certamente, si tratta di una questione assolutamente decisiva. Occorre inserire nuove energie e competenze nelle amministrazioni pubbliche e contemporaneamente lavorare anche affinché vi sia un costante aggiornamento professionale a favore degli attuali dipendenti.

Ma quindi la soluzione per vincere la sfida del Pnrr in fondo è a portata di mano? Voglio dire, non dobbiamo inventarci chissà che cosa, ma puntare fortemente sul capitale umano sul quale possiamo intervenire sin da subito. È così?

L’elemento cardine è questo. Penso ad esempio alle nuove assunzioni che siamo chiamati a effettuare: occorre certo fare velocemente, ma soprattutto bene. È fondamentale reclutare personale di qualità, selezionare i migliori. Attenzione dunque alle selezioni che stiamo facendo. Deve trattarsi davvero di un investimento per il futuro del Paese. Non possiamo permetterci di sbagliare, altrimenti avremmo potenziato le pubbliche amministrazioni quantitativamente, ma non qualitativamente. E, quindi, di fatto, le avremo indebolite.

A suo avviso, Busia, quanto incide in questo contesto il regime di responsabilità, spesso incerto e gravoso, a cui sono sottoposti i dipendenti pubblici nel nostro Paese? Dal danno erariale all’abuso d’ufficio, per intenderci.

È indubbio che serva metterli nella condizione effettiva di assumere le decisioni che competono loro, con piena consapevolezza di quali sono le alternative possibili e cosa invece è vietato. Chi si muove davvero al servizio del bene comune – ed è fortunatamente la stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici – deve operare senza lo spettro di incorrere continuamente in possibili conseguenze negative e sanzioni. Per questo ci vogliono regole chiare e prive di ambiguità.

Altrimenti?

L’alternativa, come abbiamo spesso sperimentato, è quel blocco della firma di cui tanto si parla in Italia. In quest’ambito, la competenza rappresenta ancora una volta un antidoto formidabile: solo chi conosce in profondità una materia, può avere la forza e la tranquillità di prendere decisioni anche difficili ed esercitare quella discrezionalità che rappresenta il vero valore aggiunto per condurre l’amministrazione al servizio dei cittadini.

Presidente tutti questi elementi come devono poi trovare riconoscimento nel disegno di legge delega ora all’esame del Senato? Qual è la vostra posizione in merito?

La delega in discussione in commissione al Senato è molto generica, forse fin troppo, perché non chiarisce la direzione da seguire. L’auspicio è che il Parlamento la possa rinforzare, nel senso di precisarla, di indicarne più definitamente i contorni, in linea d’altronde con i poteri che gli attribuisce la Costituzione.

Il codice degli appalti che verrà ci serve per programmare il nostro futuro oltre il Pnrr?

In Italia stiamo giustamente enfatizzando il peso del Recovery Plan, ma non c’è dubbio che si debba guardare anche oltre il 2026. Il nuovo codice degli appalti deve avere questo sguardo lungo, deve essere scritto secondo un orizzonte che non si ferma al Pnrr, ma che va molto più in là.

Ma nel frattempo non si potrebbe sospendere le attuali regole e applicare direttamente in Italia le direttive europee, come ha proposto qualcuno in tempi non sospetti?

Definirei questa proposta un’utile provocazione, ma anche chi l’ha avanzata è consapevole che le direttive da sole non possono bastare.

Perché?

Solo per citare un paio di ragioni, perché non disciplinano minimamente alcuni aspetti fondamentali, quale la qualificazione degli operatori economici, e perché non toccano tutti gli appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria, che poi sono la stragrande maggioranza. Semmai c’è un’altra cosa che potremmo fare.

Ovvero?

Il salto vero che dovremmo fare soprattutto alla luce del Recovery Fund sarebbe approvare un nuovo regolamento europeo in materia di contratti pubblici.

Intende al posto delle attuali direttive?

Sì, tanto dovremmo comunque rivederle considerato che sono passati circa otto anni dalla loro approvazione. Sarebbe utile lavorare a un regolamento per eliminare il grosso delle differenziazioni tra i singoli Paesi e favorire così la crescita del mercato interno. Ciò sarebbe tanto più coerente considerata l’idea di Europa che è alla base del Next Generation Eu.

Da che punto di vista?

Considerato che Bruxelles guarda alla crescita di ogni Paese nel lungo periodo, sarebbe giusto che una leva importante come le regole in materia di contrattazione pubblica avesse la sua disciplina in un regolamento, in modo anche da andare a eliminare i vuoti che ci sono attualmente. Spero che l’Italia possa farsi promotrice di questa proposta in Europa.

Ma che differenza ci sarebbe? 

Le distinzioni nel tempo sono divenute un po’ relative, però i regolamenti sono più dettagliati e immediatamente applicabili. Dunque, a differenza delle direttive, che sono scritte a maglie larghe, non richiedono alcun recepimento attraverso le normative nazionali. Sarebbe anche il modo per accogliere la provocazione di chi dice di applicare direttamente la disciplina europea.

Senta Busia, ma il ruolo dell’Anac in materia di appalti pubblici come sta cambiando anche alla luce di tutte le novità che interessano il settore? 

Mi piace sottolineare come esempio la funzione direi quasi consulenziale che l’Anac svolge a supporto delle stazioni appaltanti. Un modo anche per andare anche a colmare la carenza di competenze di cui abbiamo parlato. A tal proposito, stiamo incentivando sempre di più la cosiddetta vigilanza collaborativa, in virtù della quale ci affianchiamo alle amministrazioni per aiutarle nel momento in cui sono chiamate ad adottare atti particolarmente complessi o rilevanti, così da provare pure a superare il blocco della firma.

Funzioni ulteriori destinate a sostituire quella rilevantissima di adottare le Linee guida di attuazione che vi attribuiva il codice del 2016? Il ritorno al regolamento pare certo.

Non so cosa succederà, l’orientamento prevalente sembra andare effettivamente in questa direzione. Dobbiamo però riconoscere che il passaggio dalle linee guida al regolamento è già stato previsto alcuni anni fa, ma finora si è solo prodotta una bozza, che non è più stata partorita e che ormai non vedrà più la luce in vista della delega. Anche sotto la vigenza del precedente codice, ci vollero ben quattro anni per scrivere il regolamento. Nel frattempo, comunque, Anac le sue indicazioni le ha fornite e continuerà comunque a darle allo scopo di favorire il lavoro delle stazioni appaltanti, almeno dal punto di vista delle buone pratiche.

Non avete avuto un’indicazione chiara in merito?

Come le dicevo, occorre attendere il testo definitivo della legge di delega. Vedremo quali saranno i contenuti del nuovo codice e, a seguire, quelli del regolamento. Ma continuerà comunque a servire alle pubbliche amministrazioni un aiuto da parte dell’Anac in termini di consulenza e vigilanza collaborativa. Anzi, credo che questo ruolo dell’Autorità crescerà ulteriormente.

Su questo un’ultimissima domanda presidente Busia: a suo avviso sarebbe una disciplina attuativa valida per tutti gli appalti oppure occorrerebbe distinguere tra lavori, servizi e forniture?

È indubbio che i lavori abbiano la loro specificità, ma prevedere che la loro disciplina sia inserita in un testo unificato non equivarrebbe certo a negarla. Mi permetto di dire che, al di là delle forme, quello che conta è il contenuto: alcune disposizioni sono comuni, altre devono evidenziare le differenze. Non solo: anche all’interno dei servizi o delle forniture, esistono specificità per singoli settori. Servono regole chiare e puntuali, questo è il punto. Poi tanto più dettagliato sarà il codice quanto più semplice sarà la disciplina di attuazione o viceversa.



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