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L’Europa tra materiali critici e ordine geopolitico globale

La presidenza spagnola del Consiglio Europeo si inaugura con una presa di coscienza delle sfide sistemiche globali. Serve maggior realismo in politica estera e scrutinio dei settori strategici, a partire dalle materie prime critiche. Ecco le riflessioni e alcune proposte del report che verranno discusso a Granada il 5 ottobre

L’ordine internazionale guidato da Stati Uniti ed Unione Europea, basato su principi democratici e di libero mercato, è sempre più in questione per l’emergere di nuovi attori revisionisti e per la pressione sistemica di processi quali l’innovazione tecnologica e la transizione energetica sulla tenuta politico-sociale delle società occidentali.

Non risulta tuttavia evidenza empirica a supporto della tesi di un vero e proprio ritiro della globalizzazione, che ha contribuito a livellare le disparità commerciali tra paesi sviluppati e non, oltre ad approfondire le disuguaglianze interne attraverso il processo di offshoring delle attività manifatturiere (tra le quali, quelle che oggi rischiano di trasformarsi in “colli di bottiglia” come i chip e le materie prime critiche). Piuttosto, assistiamo ad una parziale riscrittura, a geografia variabile, delle filiere industriali, soprattutto nei settori high-tech e in un’ottica di sicurezza. L’Ue deve adeguare la propria postura, in politica estera, economica e industriale, a questa nuova realtà.

Sono queste le principali premesse del rapporto, intitolato RESILIENTEU 2023. A future-oriented approach to reinforce th EU’s Open Strategic Autonomy and Global Leadership realizzato dal governo spagnolo in occasione del passaggio del testimone della presidenza del Consiglio Europeo a partire da questo ottobre.

Pedro Sánchez farà del concetto di “autonomia strategica aperta” una delle chiavi della sua presidenza del Consiglio dell’Ue. Un concetto che è stato lanciato per la prima volta da Emmanuel Macron più di un anno fa, chiedendo che le politiche di Bruxelles fossero maggiormente finalizzate alla tutela dei diritti umani, alla protezione degli asset europei e alla reindustrializzazione dell’Ue. La presidenza presidenza spagnola ha aggiunto il concetto di “openess” per riflettere gli aspetti positivi dell’apertura e per evitare che diventi uno slogan protezionistico.

Secondo il report, di fronte all’Europa si presentando due possibili scenari: il primo prevede un rimodellamento soft del sistema multilaterale globale, con l’ingresso della Cina tra i paesi egemoni e l’approfondirsi del processo di regionalizzazione. Non senza frizioni, ma tale da riconfigurare il sistema e non al punto di spezzarne i meccanismi di fondo (WTO, Nazioni Unite etc.). Il secondo scenario, è ben più cataclismico: apre la possibilità di un mondo frammentato, polarizzato in due blocchi contrapposti (Occidente e Oriente), che replica dinamiche simili alla Guerra Fredda, ma con un avversario (la Repubblica Popolare Cinese) con mezzi economici e tecnologici ben più sfidanti dell’URSS. Difficile dire quale dei due si manifesterà, ma in ogni caso l’Ue dovrà al contempo “fare tutto quello che è nelle sue possibilià per prevenire la frammentazione globale” -in un’ottica di leadership e stakeholder responsabile -e “prepararsi per questa eventualità”. Ovvero dotarsi di strumenti e volontà di agire sui dossier più critici per la tenuta del sistema stesso.

La demonizzazione dell’apertura, ai mercati, alla globalizzazione, di cui l’Ue e il processo d’integrazione si sono nutriti, anche alla luce dei più recenti shock (pandemia, guerra in Ucraina) non fa emergere, comunque secondo gli analisti, alcuni dati: “l’Europa – si legge – comprende solo il 3% della superficie terrestre, il 6% delle materie prime e il 6% della popolazione mondiale, eppure, rappresenta il 15% dell’economia mondiale e il 54% della spesa sociale.” L’accesso a innovazione, materie prime, conoscenze, flussi di capitale ha consentito all’UE di rimanere al centro dell’economia globale, non ai suoi margini, con i benefici per i suoi cittadini in termini di benessere e prospettive. “I vantaggi che l’Ue ha ottenuto dall’apertura internazionale” prosegue il report “potrebbero essere compensati soltanto dalle perdite che la frammentazione e il protezionismo potrebbero creare.” Sottoforma di tariffe e dazi commerciali, scrutinio degli investimenti, embarghi etc. In un mondo polarizzato – e paralizzato dalla competizione geopolitica – i cittadini europei potrebbero patire prezzi di beni e servizi più alti (i costi dell’energia, l’inflazione galoppante sono già segnali in questa direzione), la mancanza di opportunità di lavoro -il report ricorda che l’apertura alle imprese straniere ha creato più di 24 milioni di posti di lavoro nell’Ue (il 16% del totale) -e incertezze economiche.

Tuttavia, i costi di preservare lo status quo potrebbero essere maggiori qualora l’Ue si ritrovasse -da sola o in allineamento con gli Stati Uniti, con la presidente del Parlamento Europeo, Metsola, che a New York ha ricordato come, nonostante le battaglie commerciali e i dissidi sull’Inflation Reduction Act, Usae Ue siano ancora “un’alleanza democratica” -di fronte ad un mondo emergente che vede, al contrario, il prezzo di aderire ad un sistema che non riflette i propri interessi, politici ed economici. Ecco perchè in questo scenario l’UE deve considerare che ci sono alcuni punti di debolezza del sistema che potrebbero trasformarsi in vulnerabilità. Tra cui proprio quelle dipendenze (da materie prime e prodotti high-tech) che la promozione della globalizzazione ha contribuito a creare.

Sono tre i trend che segnalano come il nuovo ordine globale (i due scenari sopra citati) potrebbere emergere a prescindere dalla volontà o capacità dell’Ue. Il primo è il ricorso all’uso della forza al di sopra del diritto internazionale, ben dimostrato dall’aggressione della Russia all’Ucraina e che fa presagire instabilità e insicurezza ai confini europei. Il secondo è il dinamismo dei Brics, gruppo di paesi ormai “allargato” e guidato dalla Cina, potenza ormai militare e tecnologica in grado di sfidare l’egemonia occidentale. Il terzo, sistemico, è la crescente competizione per le risorse naturali nel contesto della crisi climatica e del boom demografico (ed economico) del Sud Globale, che potrebbe accentuare nel medio-lungo periodo la dipendenza e i rischi di fornitura. Infatti, secondo una ricerca condotta dalla Commissione e dalla Banca Centrale Europea il blocco comunitario è totalmente dipendente dall’estero per oltre 300 prodotti tra cui materie prime, input energetici, beni e componenti tecnologici che sono fondamentali per la l’economia e che hanno un potenziale limitato di diversificazione e sostituzione (almeno nel breve-medio periodo), poiché la loro produzione è fortemente concentrata in pochi Paesi extra-Ue.

È evidente che il peso di questi prodotti per i settori economici di riferimento può essere alto in termini assoluti, ma non tutti gli asset sono strategici. Come nel caso delle materie prime critiche, se consideriamo alcuni indicatori (come la governance e il rischio di fornitura), per esempio una forte dipendenza per il litio dal Cile non è, in termini geopolitici, uguale a una moderata dipendenza dalla Cina per le terre rare (che si manifesta negli stadi a più alto valore aggiunto della filiera, come per i magneti su cui l’Ue è particolarment esposta).

In generale, l’Europa rappresenta meno del 7% della produzione mondiale delle materie prime critiche e dipende quasi esclusivamente dalle importazioni dal Sud del mondo (per quanto riguarda le materie prime, senza considerare i semi-prodotti raffinati, Sud America e Africa in primis). Infine, i depositi di questi di queste materie prime sono altamente concentrati in pochi Paesi che agiscono come fornitori quasi monopolistici.

Alcuni di questi materiali sono fondamentali perchè a loro volta abilitano le cosiddette “key enabling technology” per le ambizioni climatiche dell’UE entro il 2050. Triplicare la produzione di energia solare ed eolica e aumentare l’elettrificazione di settori come i trasporti comporterà un aumento significativo della domanda di tecnologie verdi. Ad esempio, il fabbisogno di turbine eoliche raddoppierà, le vendite di pompe di calore quadruplicheranno e il numero di motori elettrici aumenterà di sei volte. In questa direzione, la sfida rimane quanto l’Ue riuscirà a raggingere i suoi target con le proprie capacità: secondo le stime più recenti, il blocco da solo sarebbe in grado di soddisfare solo una piccola parte di questa domanda, mentre gran parte delle nuove installazioni potrà avvenire solo con le importazioni dalla Cina che produce tra il 35% e il 55% dei componenti per pannelli solari e turbine eoliche e il 90% dei magneti permanenti necessari per la produzione di pompe di calore e motori elettrici. Oltre a dominare la supply chain delle batterie al litio, dalle miniere fino alla produzione di celle.

Ecco perché conciliare autonomia strategica, target climatici e dipendenza dalle materie prime risultà un trilemma di non semplice risoluzione. “Entro il 2030 l’ecosistema energetico europeo” ammonisce il report “potrebbe avere una dipendenza dalla Cina di natura diversa, ma con una gravità simile da quella che aveva dalla Russia prima dell’invasione dell’Ucraina”.

In un contesto geopolitico e di relazioni commerciali stabili, l’Ue avrebbe anche potuto gestire questa dipendenza in un’ottica di massimizzazione dei sui obiettivi (il Green Deal). Ma come detto, lo scenario è in continua evoluzione e difficilmente prevedibile. E consentire che i propri, ambiziosi obiettivi, siano alla mercé della volontà o di shock esogeni è troppo rischioso. E questo vale anche e soprattutto per i semiconduttori. La quota di mercato globale dell’UE è scesa dal 20% degli anni ’90 all’attuale 9%. Di conseguenza, quasi l’80% dei fornitori delle imprese europee che operano in questo settore ha sede al di fuori dell’Ue, principalmente tra Taiwan, Cina e Corea. L’European Chips Act si pone l’obiettivo di invertire questa tendenza, puntando sul mercato europeo e gli investimenti di attori chiave, come TSMC.

Cosa fare, dunque? Sono nove le linee d’azione individuate, raccolte in tre cluster (sicurezza industriale, circolarità del consumo e innovazione, politica commerciale): 1) Promuovere la produzione nazionale di beni, servizi e materie prime fondamentali; 2) monitoraggio e limitazione della proprietà o del controllo stranieri su settori strategici e infrastrutture; 3) Definire piani di emergenza per rispondere a future carenze. 3) Rafforzare la circolarità e il consumo intelligente; 4) Migliorare l’efficienza delle risorse; 5. Promuovere la circolarità nell’economia e nella società; 6) Sostituzione di materie prime e componenti con alternative più alternative più accessibili. 7) Avviare una nuova espansione commerciale (es. FTA con paesi ricchi di risorse, come Cile e Australia); 8) Riequilibrare le relazioni economiche con la Cina; 9) Guidare il rinnovamento dell’architettura multilaterale.

Il progetto di “autonomia strategica” presentato dal governo spagnolo si concentra dunque sulla necessità di riequilibrare le relazioni economiche con la Cina, un partner essenziale dell’Ue e rifiuta il concetto di “disaccoppiamento” dell’economia europea da quella cinese, nonostante le spinte in questa direzione da parte di Washington nei settori più strategici, come quello dei chip. Gli Usa, d’altrocanto, chiedono di “mantenere e rafforzare” i meccanismi della Commissione per “ridurre i rischi che derivano” da un’eccessiva dipendenza da Pechino che potrebbe configurarsi in un arma di ricatto economico-diplomatico. Le lezioni apprese durante la pandemia prima (carenza di prodotti medici e di altro tipo provenienti dalla Cina) e poi con la guerra in Ucraina (disconnessione del gas e del petrolio russo) hanno portato i leader europei (e non solo) a cercare con urgenza la diversificazione degli approvvigionamenti di materie prime critiche.

Il documento infine entra nel dettaglio dei materiali e delle fonti di approvvigionamento chiave per lo sviluppo dell’industria europea. L’obiettivo è quello di sostituire fornitori o materie prime insicuri con altri affidabili. Si propone come cruciale ridurre, ad esempio, la dipendenza dalle terre rare, come il disprosio o il terbio, utilizzate anche nelle reti 5G. Nel settore delle tecnologia dell’informazione, si chiede di promuovere la sostituzione del platino, utilizzato nei server e nei database, con condensatori ceramici che utilizzano elettrodi a base di nichel. Si spinge verso la transizione alle batterie allo stato solido o agli ioni di sodio per sostituire gradualmente litio o nichel su cui grava la dipendenza da Cile e Indonesia, attraverso la raffinazione che avviene ad opera di imprese cinesi.

Vi è poi la necessità di rafforzare il sistema di screening degli investimenti esteri diretti (FDI), per una maggiore armonizzazione a livello europeo soprattutto nei settori delle tecnologie e infrastrutture “critiche”. E’ possibile che tale meccanismo possa essere esteso anche al settore delle materie prime: ad agosto il ministro francese Bruno Le Maire ha annunciato che avrebbe spinto in questa direzione per difendere le industrie dell’estrazione e trasformazione europee dalla penetrazione di capitali stranieri in un segmento a dir poco cruciale per l’autonomia strategica europea e che, tuttavia, lamenta ancora la mancanza di investimenti dell’Ue.


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