Marco Damilano, direttore dell’Espresso e autore del libro dal titolo “Il Presidente” edito da La nave di Teseo parla con Formiche.net. Draghi? “Continua a essere la soluzione più probabile anche se la sua candidatura ha molti punti deboli”. Berlusconi? “È riuscito a congelare il quadro politico e in fondo ha creato l’alibi perfetto per Pd e M5S”
Il voto per il Quirinale si avvicina, ma le nubi che ancora si addensano sui partiti e sul Parlamento non accennano a diradarsi. Manca il pivot politico in grado di tessere la strategia per la scelta del prossimo presidente della Repubblica e, di conseguenza, manca pure il nome forte attorno al quale raccogliere la più ampia maggioranza possibile. O, meglio, quel nome c’è, Mario Draghi, ma le incognite e i punti deboli della sua candidatura sono ancora tutti sul tavolo, come ha sottolineato in questa conversazione con Formiche.net il direttore dell’Espresso Marco Damilano, in queste settimane in libreria con il suo libro dedicato al Quirinale dal titolo “Il Presidente” edito da La nave di Teseo.
Direttore, partiamo dall’inizio. Ma la situazione è così complicata oppure alla fine è meno caotica di quel che sembra esternamente?
No no, è davvero confusa come appare. Non è una semplice sensazione. Mi sembra che in questa fase, prima ancora che un nome per il Colle, si stia cercando il famoso kingmaker. Per dirla alla Corrado Guzzanti, gli spingitori di candidati.
Perché è così confusa a suo avviso?
Perché, a differenza del passato, non ci sono partiti egemoni in grado di imprimere una direzione chiara alle elezioni presidenziali, com’è avvenuto a lungo con la Democrazia cristiana e com’è successo più recentemente anche con il Partito democratico, che ha orientato la scelta di tutti gli ultimi capi dello Stato.
Non ci sono più i partiti ma neppure i leader del passato anche recente. Mi pare si possa dire così, giusto?
Manca il leader a cui spetta la responsabilità di condurre il gioco: nel 2013 pure c’era, si trattava di Pierluigi Bersani che però lo guidò malissimo, tanto che fu costretto a dimettersi da segretario, mentre Matteo Renzi nel 2015 fece bene con l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella. Oggi non ci sono né quelle figure né quelle forze politiche.
I partiti sono messi così male?
Quello di maggioranza relativa di questo Parlamento, il Movimento 5 Stelle, è ormai praticamente inerte e dissolto. E poi il Pd da un lato e il centrodestra dall’altro hanno problemi enormi al loro interno.
Quindi?
Quindi siamo ancora alla ricerca di chi dovrà indicare e trovare il candidato giusto. Da questo punto di vista, a mio avviso, i due indiziati speciali sono Enrico Letta e Matteo Salvini.
Come mai proprio loro?
Non tanto o non solo per la loro attuale forza, quanto perché mirano entrambi a essere i leader del futuro e a guidare i rispettivi schieramenti nei prossimi anni. Per Letta e Salvini riuscire a eleggere al Colle un candidato indicato da loro significa anche poter contare nei prossimi sette anni su un Capo dello Stato a loro in qualche modo vicino o, comunque, non ostile. Questo è il primo obiettivo.
E il secondo obiettivo, se c’è, qual è?
Fare un passo di più. E quindi costruire intorno al Quirinale un patto per la fine della legislatura e sulle riforme che verranno.
Ma non è che alla fine il ruolo del kingmaker sarà giocato da Silvio Berlusconi? La sua candidatura è in campo, ma alla fine potrebbe sempre decidere di tirarsi fuori dalla corsa e indicare un possibile nome per il Colle.
È una possibilità concreta e per questo Salvini sta cercando di evitarla. Anzi, meglio: il leader leghista sta cercando di impedire sia che Berlusconi possa diventare il presidente sia che possa viceversa guidare la scelta e, quindi, che concluda un accordo in proprio con il centrosinistra prima che lo chiuda Salvini stesso. Questa è una sotto-partita molto interessante da monitorare.
Dunque, il futuro del Quirinale passa comunque da Arcore, è così?
Certamente Berlusconi ha una sua centralità in questa fase. Con la sua stessa candidatura è riuscito a tenere bloccato il centrodestra e, quindi, a congelare l’intero quadro politico. Ma, in fondo, rappresenta anche un grosso alibi per i partiti di centrosinistra.
Cioè?
Nel senso che costituisce la giustificazione perfetta per rimanere fermi. Se il Pd e il Movimento 5 Stelle fossero chiamati ad assumere l’iniziativa, entrerebbero in grave imbarazzo. Che Berlusconi in questa fase gli impedisca di muoversi, in fin dei conti fa comodo a entrambi, perché ciò gli consente di restare comodamente alla finestra in attesa che il centrodestra faccia qualcosa.
Salvini e Meloni saranno, invece, meno contenti, no?
Certamente, d’altronde si trovano a gestire una grana enorme. Sono nella condizione di dover dire a Berlusconi che sarebbe meglio opportuno optare per soluzioni diverse, ma non è di sicuro un compito facile. E difatti chi glielo dice al Cavaliere? Nessuno. E così l’operazione scoiattolo può proseguire. Uno spettacolo incredibile.
Direttore, ma questa debolezza diffusa dei partiti e dei leader politici farà sì che nessuno riesca a eleggere un presidente di parte e che alla fine tutti o quasi dovranno mettersi d’accordo per eleggere insieme il Capo dello Stato?
Io penso di sì. Questo è un Parlamento di debolezze e divisioni, la cui storia è stata caratterizzata sin dall’inizio dall’assenza di una maggioranza chiara e stabile. Guardate ad esempio il centrodestra: alla fine si è spaccato due volte, la prima ai tempi del governo gialloverde e la seconda con l’esecutivo guidato da Mario Draghi. Perché sul Presidente della Repubblica dovrebbe riuscire così semplicemente a rimanere compatto? Fatico onestamente a crederlo.
E dall’altra parte?
Il Partito democratico ha straperso le elezioni del 2018 e quindi non può essere in grado, anche numericamente parlando, di imporre un suo candidato per la prima volta nella storia della Seconda Repubblica. Il movimento, se fosse stato capace di fare politica, avrebbe potuto dare le carte, ma così non è e dunque è diventato una specie di territorio di conquista, nel quale gli altri partiti vanno a proporre i loro candidati.
A cosa porterà tutto questo?
La somma di questi elementi dovrebbe condurre, appunto, a un presidente di garanzia per tutti che sia soprattutto il garante della prossima legislatura.
Quindi, a suo avviso, la scelta cadrà comunque su Mario Draghi? Voglio dire: il piano si è inesorabilmente o, comunque probabilmente, inclinato verso quella soluzione?
Continua a essere la soluzione più probabile, anche se i punti deboli di questa candidatura sono visibili.
Ovvero?
Il primo, il più macroscopico, riguarda Palazzo Chigi. Se Draghi andasse al Quirinale, chi prenderebbe il suo posto alla guida del governo? Sicuramente ci sarebbe in ogni caso un altro esecutivo, ma per il resto non si è ancora capito nulla. Chi lo presidierebbe? Quali partiti lo appoggerebbero? E con quali prospettive? Niente, non si sa niente.
E l’altro punto debole?
È costituito proprio dalla sua figura. Non ha mai nascosto le sue ambizioni quirinalizie, ma si muove come se rappresentasse una necessità, come se fosse un presidente necessario. Invece non è così, non è automatica e inevitabile la sua elezione, occorre comunque che venga adeguatamente costruita. Si è messo in una condizione per la quale glielo dovranno chiedere per forza, senza che lui faccia niente. Non è scontato però che ciò accada.
Ma secondo lei chi è che non vorrebbe Draghi al Quirinale tra i leader di partito?
Posta così, direi che nessuno lo vuole davvero lì.
Quindi se lo eleggeranno sarà loro malgrado?
Il punto è esattamente questo: se lo scegliessero volontariamente, diventerebbero loro i protagonisti. Se al contrario lo subissero come una necessità ineluttabile, allora saremmo di fronte all’ennesimo fallimento della politica.
Esistono però nomi alternativi a Draghi che possano comunque incontrare il consenso di tutte o quasi le forze politiche parlamentari?
Potenzialmente ce ne sono. Da Marta Cartabia a Giuliano Amato fino al bis di Sergio Mattarella che, nonostante tutto, mi pare sia un’ipotesi che rimane ancora sul tavolo.