Skip to main content

La consapevolezza nasce dall’informazione. La roadmap di Orthmann per le Ist

“Non basta sapere. Bisogna attivare un processo che renda le persone consapevoli delle proprie scelte”. Nicoletta Orthmann (Fondazione Onda) richiama l’attenzione sul divario tra conoscenza e azione, e sull’urgenza di trasformare l’informazione in prevenzione concreta. Ma non solo. Anche i policy maker hanno un ruolo centrale per garantire l’accesso agli screening per le Ist (infezioni sessualmente trasmissibili)

Nonostante l’aumento dei casi registrati, il numero di test per le infezioni sessualmente trasmissibili (Ist) in Italia resta ancora troppo basso. Un dato che riflette un cortocircuito tra informazione, consapevolezza e azione. Per promuovere una prevenzione efficace serve garantire accesso, ma prima ancora serve attivare quel processo profondo che parte dall’informazione corretta. Come spiega Nicoletta Orthmann, direttrice medico-scientifica di Fondazione Onda Ets, colmare questo divario richiede non solo comunicazione efficace, ma anche scelte di policy in grado di rendere la prevenzione una vera priorità di salute pubblica.

Dott.ssa Orthmann, partiamo da un quadro generale. Di cosa parliamo quando parliamo di Ist? E quanto si è consapevoli sul tema in Italia?

Quando parliamo di infezioni sessualmente trasmissibili (Ist), ci riferiamo a infezioni causate da microrganismi – ad esempio, batteri, virus, miceti – trasmesse prevalentemente attraverso contatto sessuale non protetto. Può bastare un solo contatto per essere contagiati, e le modalità di trasmissione includono tutti i tipi di rapporto sessuale, il sangue e, nel caso di una donna incinta, la trasmissione al nascituro con possibili gravi complicanze.

In Italia, più che di consapevolezza, si dovrebbe parlare di informazione. Se ne parla, ma non abbastanza. C’è una conoscenza generica, ma non si attiva quel processo che porta a scelte consapevoli. La consapevolezza richiede un’informazione che generi cognizione profonda e comportamenti responsabili, come adottare misure preventive o accedere tempestivamente alla diagnosi e alla cura.

Lei ha parlato di come l’informazione debba trasformarsi in consapevolezza. Ma questa conoscenza, anche quando è di alto livello, riesce a tradursi in azioni concrete?

Purtroppo no. Ce lo evidenzia molto bene il disallineamento tra l’aumento dei casi delle infezioni sessualmente trasmissibili, da una parte, e il numero dei test diagnostici effettuati, dall’altra, che risulta molto basso. È proprio qui che c’è un gap, ed è la cartina al tornasole che ci dimostra come l’informazione possa anche circolare, ma non sia ancora permeata negli animi e nelle coscienze della popolazione, soprattutto tra i più giovani. I dati dei sistemi di sorveglianza ci dicono che le Ist aumentano. Questo dimostra che l’informazione non ha ancora costruito quella consapevolezza che spinge le persone a fare prevenzione o ad accedere tempestivamente ai test.

Come si colma questo gap tra sapere e fare?

Purtroppo, non basta avere cittadini informati o anche consapevoli. Serve che siano messi nella condizione di agire. La formula vincente deve garantire accessibilità concreta ai percorsi di prevenzione e cura.

Perché è così importante investire nell’informazione e quindi, di conseguenza, nella prevenzione e nella cura delle infezioni sessualmente trasmissibili? Quali conseguenze comportano, non solo sul piano clinico, ma anche dal punto di vista psicologico e sociale?

Le Ist possono avere conseguenze gravi sulla salute, sia a livello locale (apparato genito-urinario) sia sistemico. Le complicanze possono includere malattia infiammatoria pelvica, infertilità, tumori come quello legato al papilloma virus, o problemi in gravidanza fino a gravi rischi per il nascituro. Un ulteriore problema è che molte Ist sono asintomatiche o presentano sintomi lievi e facilmente scambiabili per infezioni banali come una cistite, il che porta a trascurarle, aumentando il rischio di complicanze a lungo termine e di trasmissione inconsapevole. E poi c’è lo stigma…

Può dirci di più?

Certo. Agli aspetti clinici si aggiungono la dimensione sociale e quella psicologica. Lo stigma resta forte, poiché le Ist sono associate a comportamenti sessuali spesso giudicati immorali, erroneamente considerate retaggio del passato, lontane dal proprio vissuto e associate a sole categorie “a rischio”. Ciò rappresenta una barriera significativa per la diagnosi, il trattamento e la prevenzione.

Un dato che colpisce, infatti, è il numero molto basso di test diagnostici segnalati annualmente in Italia — circa 11 mila, un dato in crescita rispetto al 2020 (8 mila) — ma è sufficiente?

Sicuramente non è ancora sufficiente, nonostante la buona capacità dei laboratori e la diffusa disponibilità dei test. A questo dato contribuiscono diversi fattori. Da un lato ci sono ostacoli culturali e informativi. Molte persone, infatti, pur conoscendo l’esistenza dei test, non sanno a chi rivolgersi. Dall’altro ci sono barriere attuative e organizzative legate all’accesso stesso ai test. Per superare queste barriere, bisogna agire su entrambi i fronti. Da un lato, serve aumentare la consapevolezza e fornire strumenti concreti per accedere ai percorsi di prevenzione, dall’altro bisogna rendere la diagnostica precoce realmente accessibile.

La situazione è omogenea sul territorio nazionale in termini di accesso a diagnosi e servizi?

Purtroppo, come spesso accade, anche nel caso delle Ist esistono diseguaglianze territoriali significative. La salute sessuale e riproduttiva è parte integrante della salute generale, ma non gode di un’equità d’accesso su tutto il territorio nazionale.

Cosa manca?

Innanzitutto, una rete strutturata che garantisca programmi di screening gratuiti e una connessione efficace tra territorio e centri specializzati. Inoltre, la distribuzione stessa dei centri Mst (malattie sessualmente trasmissibili) non è uniforme. Sono presenti solo in due terzi delle regioni italiane. E non tutti gli ospedali o centri sanitari dispongono di un laboratorio di microbiologia.

Come anticipava prima, anche l’informazione gioca un ruolo importante. In questo quadro, quali sono le leve più efficaci oggi per raggiungere la popolazione generale, soprattutto i più giovani?

È fondamentale promuovere attività di informazione mirate, capaci di trasformare l’informazione in consapevolezza. Per raggiungere i più giovani, i social media sono una leva potente: strumenti rapidi, capillari, che – se usati con attenzione al linguaggio e alle immagini – possono veicolare messaggi anche complessi in modo semplice ed efficace. La scuola, inoltre, è un contesto educativo fondamentale, anche se questi temi faticano ancora a trovare spazio. In generale le attività di informazione e di sensibilizzazione devono sempre rispondere a criteri di rigorosità, di correttezza scientifica, utilizzando, al contempo, un linguaggio semplice e divulgativo.

Quale ruolo possono ricoprire gli operatori sanitari per essere di supporto al cittadino?

Per quanto riguarda gli operatori sanitari, è essenziale che siano coinvolti a tutti i livelli. Non solo gli specialisti, ma anche medici di medicina generale e farmacisti, che oggi, nell’ottica della “farmacia dei servizi” o della “farmacia della relazione”, diventano sentinelle sul territorio. Gli operatori sanitari, dunque, devono saper veicolare correttamente le informazioni e intercettare precocemente i bisogni delle persone, fungendo da ponte verso la diagnosi e la cura.

In Europa alcuni Paesi si stanno muovendo in modo più strutturato. Penso, ad esempio, alla Francia, che ha introdotto lo screening senza prescrizione medica per diverse infezioni sessualmente trasmissibili in alcune popolazioni target. Cosa possiamo imparare da questi esempi?

Anche un cittadino consapevole, se non ha la possibilità concreta di accedere a servizi di prevenzione e diagnosi precoce, non può agire. L’esempio della Francia dimostra chiaramente che abbattere le barriere organizzative, logistiche, burocratiche e anche economiche facilita l’accesso alla diagnosi. La formula vincente non può essere solo informazione e consapevolezza. I policy maker, in particolare, hanno un ruolo centrale nel destinare risorse volte a strutturare percorsi che diano risposta concreta ai bisogni delle persone.

Se dovesse fare una call to action, quali direttrici considera prioritarie per migliorare l’approccio al tema in Italia?

Punterei su tre macro-aree. La prima è quella dell’informazione che diventa consapevolezza. Occorre lavorare affinché l’informazione si traduca in comportamenti responsabili verso sé stessi e verso la collettività. Non basta sapere. Bisogna attivare un processo che renda le persone consapevoli delle proprie scelte in materia di salute sessuale e riproduttiva. Poi, la formazione degli operatori sanitari orientata all’ascolto e all’azione. Gli operatori sanitari devono essere capaci non solo di informare correttamente, ma anche di ascoltare, intercettare precocemente segnali e bisogni, e accompagnare le persone verso i percorsipiù appropriati. Infine, dobbiamo costruire una solida rete. “Rete” intesa come collegamento efficace tra territorio e centri specializzati. E anche “rete” di collaborazione in cui ogni attore – istituzioni, operatori sanitari, società scientifiche, ma anche i professionisti del settore dell’informazione – lavori insieme per rendere l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva reale ed equo. Solo attraverso un lavoro di squadra, con obiettivi e linguaggi comuni, si può affrontare una sfida che è culturale, organizzativa e formativa allo stesso tempo.


×

Iscriviti alla newsletter