L’Europa ha le carte in regola per essere una potenza in grado di confrontarsi alla pari con la Russia, ma se questo scenario mai si realizzerà dipende dalla volontà politica degli Stati membri. Dietro la propaganda, l’autoritarismo del Cremlino è meno performante delle seppur macchinose democrazie europee. Per l’Europa è il momento di riconoscere che è finita un’era e che un’altra è agli inizi. Queste le conclusioni dell’ultimo report dell’Institut français des relations internationales (Ifri)
“Gli Stati europei hanno il potenziale economico, militare e tecnologico per affrontare la Russia entro il 2030, a condizione che trovino la volontà politica di farlo.” È questa la conclusione del rapporto Europe–Russia: Balance of Power Review, pubblicato dall’Institut français des relations internationales (Ifri) e curato da Thomas Gomart con la partecipazione dei principali centri di ricerca e think tank del continente – tra cui Iai e Rusi. Un documento che analizza, con metodo comparativo, la posizione di Mosca e quella dei Paesi europei nei campi economico, militare, politico e diplomatico, tracciando un quadro realistico del nuovo equilibrio di potere che segnerà l’Europa dei prossimi anni.
La fine dell’ambiguità strategica
Dopo oltre vent’anni di interdipendenza energetica e diplomazia economica, l’invasione russa dell’Ucraina ha segnato la rottura definitiva. Per l’Ifri, la “questione russa” non è più eludibile: è Mosca che ha scelto la guerra come strumento politico e ha imposto al continente un confronto destinato a durare ben oltre la Guerra d’Ucraina. L’Europa, d’altro canto, si trova in una condizione di paradosso. La forza del continente al momento risiede più nelle sue potenzialità future che nelle sue capacità presenti.
Mentre Mosca, spinta da una visione imperiale e da un’autorità personale ormai plebiscitaria, concepisce la guerra come condizione naturale di potenza, l’Europa continua a pensarsi come un progetto di pace, che reagisce più che agire. In questa asimmetria risiede la vera vulnerabilità europea. Se la Russia si muove ormai come una potenza in guerra permanente, l’Europa continua a ragionare come se la pace fosse la norma, e la guerra un’eccezione passeggera.
L’economia russa in stagnazione, quella europea in trasformazione
L’economia russa, sostiene l’Ifri, ha dimostrato una sorprendente resistenza iniziale all’impatto delle sanzioni e alle esigenze belliche. Il boom dei prezzi energetici, l’aumento degli scambi con la Cina e il controllo autoritario sulle finanze hanno permesso a Mosca di reggere l’urto delle sanzioni. Ma dietro la facciata di stabilità si cela una spirale di stagnazione e dipendenza.
L’inflazione supera infatti il 10%, il tasso d’interesse della Banca centrale resta sopra il 20%, il Fondo sovrano è quasi esaurito e il deficit cresce a ritmi preoccupanti. La Russia continua a esportare petrolio e carbone grazie alla sua Flotta Ombra, ma i costi logistici di tale operazione e gli sconti “richiesti” dai nuovi acquirenti — India e Cina — erodono i margini di guadagno. Il gas, un tempo la leva strategica del Cremlino sull’Europa, è ormai una rendita perduta. Gazprom ha perso il suo mercato principale e, numeri alla mano, non potrà compensarlo con la Cina, che paga meno e negozia da una posizione di forza.
L’Europa, al contrario, ha reagito alla crisi con una trasformazione strutturale. La corsa per liberarsi dalla dipendenza energetica ha accelerato la transizione verde e la nascita di una politica industriale continentale. Il Critical Raw Materials Act, il Net Zero Industry Act e le nuove regole sul credito pubblico hanno posto le basi per una sovranità economica mai tentata prima. Le importazioni di combustibili fossili si sono dimezzate, l’inflazione è rientrata e gli investimenti nell’elettrico e nelle rinnovabili hanno restituito slancio al settore manifatturiero.
Difesa e deterrenza
Sul piano militare, il confronto con Mosca si gioca sul piano della massa critica e della volontà politica. La Russia dispone ancora di superiorità numerica, capacità di mobilitazione e un livello di tolleranza alle perdite che l’Europa, semplicemente, neanche concepisce. Il suo esercito, pur logorato, resta abituato alla guerra. Ma Mosca soffre carenze tecnologiche e industriali crescenti, compensate solo in parte dalla brutalità tattica e dall’uso spregiudicato della disinformazione come arma strategica.
L’Europa, invece, possiede vantaggi qualitativi — nell’aeronautica, nella marina, nello spazio e nel cyberspazio — ma fatica a trasformare la sua superiorità potenziale in una deterrenza militare credibile. La coesione interna alla Nato e l’impegno americano rimangono le due colonne che ne reggono l’equilibrio. Se una dovesse incrinarsi, il rischio di una crisi aperta crescerebbe rapidamente e Mosca potrebbe sfruttare questa eventuale finestra di opportunità per tentare una spallata all’Europa.
In questo quadro, il fattore nucleare resta la variabile più destabilizzante. Il Cremlino ha abbassato le soglie dottrinali per l’uso delle armi nucleari tattiche e ne ha trasferite parte in Bielorussia. È una strategia di intimidazione permanente, un modo per condizionare le decisioni occidentali e alimentare il timore di escalation.
Due modelli politici a confronto
La Russia vive ormai in uno stato di mobilitazione permanente. Il potere è concentrato intorno a un ristretto gruppo di individui, l’economia è stata riconvertita in assetto da guerra e il controllo sull’informazione è pressoché totale. La propaganda e la repressione tengono insieme una società provata ma ancora sostanzialmente passiva. La retorica patriottica e i sussidi militari assicurano una stabilità apparente, ma sotto la superficie cresce la stanchezza collettiva, soprattutto tra le nuove generazioni, nelle aree urbane e nei territori culturalmente meno integrati della Federazione.
L’Europa, per contro, fonda la propria stabilità sulla pluralità e sulla trasparenza. Le democrazie europee sono lente, litigiose e spesso contraddittorie, ma proprio questa frammentazione garantirebbe la resilienza e la capacità di adattamento tipiche delle democrazie. In un certo senso, osserva l’Ifri, la guerra di Putin ha costretto il continente a riscoprire la propria identità politica e la difesa della democrazia come progetti condivisi.
L’autocrazia russa, all’opposto, appare solida solo in superficie. Il controllo totale può mantenere l’ordine, ma non genera successione. Ogni transizione di potere rischia di essere caotica. L’Europa, invece, pur attraversata da populismi e divisioni, conserva un vantaggio decisivo che risiede nella legittimità delle sue istituzioni.
L’Europa può prevalere, ma solo se lo vuole
Il giudizio finale dell’Ifri è tanto semplice quanto severo. L’Europa può vincere la sfida con la Russia, ma deve volerlo davvero. Il continente sta superando la dipendenza energetica, sta ritrovando un’identità strategica, ha riscoperto la centralità della difesa e del potere industriale. Ma finché non tradurrà il potenziale in decisione, la sua superiorità rimarrà teorica. La guerra in Ucraina ha segnato la fine di un’epoca. Ora se ne apre un’altra, caratterizzata dal ritorno delle logiche di potenza. Se l’Europa saprà affrontarla, potrà finalmente emanciparsi dal ruolo di spettatrice della Storia. Se invece continuerà a contare sulla protezione altrui, rischia di scoprire troppo tardi che la vera vulnerabilità del continente non è la mancanza di forza, ma la mancanza di volontà. Come conclude lo studio, “la questione non è se l’Europa possa difendersi, ma se vorrà davvero farlo”.
















