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Due giorni fa, animato da dubbi, scrivevo che Trump avrebbe dato, a condizioni limitate di utilizzo, i missili tomahawk a Zelensky, rilevando come quest’azione fosse un macigno sugli sviluppi futuri del cammino di pace.

Nella sua straordinaria imprevedibilità il Presidente degli Stati Uniti ha cambiato d’un tratto le intenzioni.

Colloquio con Putin prima di vedere Zelensky, che chiedeva la forza delle armi americane per pressare il capo del Cremlino, e i tomahawk sono rimasti nei depositi in attesa del futuro incontro in Ungheria (comunque non è escluso che possono rientrare in corsa).

Quello che è accaduto ci spiega molto.

Trump ha capito che Putin non è Netanyahu. Si sta alla pari. Soprattutto se applica il format America First, quello degli affari.

Perché dietro l’accordo di pace, tutto da costruire, ci sta, tra Russia e Stati Uniti, un pezzo di Yalta versione 2025 per dividersi le zone d’influenza del mondo.

È incontrovertibile che il capo della Casa Bianca ha lenito la tensione che sta costante sul conflitto russo-ucraino, temperando al ribasso l’escalation.

Ha compreso che la pace con la forza non vale incontrastata e soprattutto il rischio reale, qui, è la terza guerra mondiale che è assurdo scatenare per il Donetsk che vorrebbe a tutti i costi Putin.

Altresì ha tenuto buono Zelensky frenando le sue richieste ‘pericolose’ che nelle mani del resistente di Kiev potrebbero provocare danni irreparabili.

Monta anche la sensazione palpabile la necessità che Zelensky già ora non è per sempre.

La sua popolarità è crollata di quattordici punti da maggio e stando all’ultimo sondaggio del Kyiv International Institute of Sociology solo il 25% degli intervistati lo vorrebbe ancora alla guida del Paese dopo la guerra.

La gente è stanca. L’Ucraina è un paese distrutto, senza energia né acqua, in molte regioni cumuli di macerie, scenario Gaza. E chissà per quanto tempo la ricostruzione rimarrà sospesa.

Nell’ultimo incontro fumante alla Casa Bianca, Trump ha fatto intendere che presto o tardi Zelensky dovrà farsi dalla parte. È un impedimento.

E ha già fatto travasare il vaso. Di una guerra che non può andare avanti per responsabilità degli Stati Uniti sui quali Zelensky ha provato contare in quest’ultima fase dopo il disimpegno, nei fatti, degli Stati nazionali dell’Europa, alle prese con crisi economiche e politiche pesanti, altri stress per i cittadini del Vecchio Continente a cumulo dopo pandemia e guerra.

Leggo che Zelensky dopo il rifiuto di Trump si appoggerà sull’Europa. E’ sconsigliato ricominciare, in questa fase di surplace, un balletto incendiario che non farà altro che provocare turbative sulle fragilità dell’incontro di Budapest. In particolare Bruxelles deve comprendere i limiti.

Oltre, verso l’Ucraina (Gran Bretagna, Francia e in parte la Germania continuano inviare armi) non si può andare perché oggettivamente l’Europa cadrebbe in un vuoto di strategia (vuole proseguire sine die la guerra inviando eserciti fino a vincerla?) che richiede la forza degli Stati Uniti, disinteressata a coltivare quest’obiettivo.

Sta all’Europa convincere Zelensky che continua avere in testa l’obiettivo di vincere la guerra. Compito abbastanza arduo visto che nelle posizioni di comando della Commissione vi sono paesi che per primi hanno dichiarato di essere in conflitto con la Russia.

La spavalda scelta dell’Ungheria (nazione che è stata impero, la quale ha tenuto alla sua autonomia anche nel matrimonio asburgico) per l’incontro tra Putin e Trump evidenzia un cambio di ruolo di quell’Europa più bellicista che ha rinfocolato l’escalation, quella dei droni ovunque (è da un po’ che non se ne vedono sconfinare), della Russia pronta alla guerra verso i paesi dell’Unione, Italia compresa, con gli avvisi di Zelensky di un prossimo arrivo sulle nostre teste di quei mostriciattoli volanti e il Ministro Tajani a rassicurare che non c’è alcun pericolo di guerra ibrida più volte annunciata anche dalla von der Leyen.

Ebbene andare in casa di Orban ha voluto dire preferire la nazione più decisamente esposta contro le posizioni europee fiancheggiatrici della strategia e delle volontà di Zelensky.

L’Ungheria ha osteggiato in ogni modo i pacchetti delle sanzioni alla Russia, continua regolarmente prendere gas da Putin, si lava le mani delle disposizioni internazionali di arrestare il leader del Cremlino accusato di crimini di guerra. Chiaro il messaggio per come dovrà girare dopo un eventuale accordo di pace tra le parti?

Sgarbi e segnali a nuora perché suocera intenda a parte, ora la road map va riempita. Scritta. Non si può continuare a mettere in piedi incontri per ritrovarsi al punto di partenza.

Gli Stati Uniti fanno la loro parte ma serve una filiera di appoggi, paesi, leader (com’è stato per il fragile accordo di pace a Gaza) che contribuiscono a costruire un memorandum di diversi punti che non soddisferà entrambe le parti e non mortificherà alcuno.

Ho scritto su formiche.net che va composto un pool che assisterà e accompagnerà gli Stati Uniti.

Per l’Europa, in assenza di figure di spicco, il leader contemporaneo più rappresentativo, attivo nella cooperazione internazionale, è Angela Merkel (per Gaza è stato Tony Blair), con ruoli politici durante la prima presidenza Trump e nel periodo pre guerra con i dossier aperti tra Ucraina e Russia.

A fianco inserirei l’Italia, la nazione che pur sostenendo la resistenza ucraina è quella che più ha fatto per smorzare i toni in armi.

Paese e leader che possono funzionare da traino verso un accordo sono Erdogan e la Turchia membri della Nato, che continuano ricevere energia dalla Russia, e ospiti del primo possibile compresso a un mese dall’inizio del conflitto. Da lì si deve ripartire.

Infine la Cina, oggi alleata di affari di Putin e in aperto contrasto con gli Stati Uniti per i dazi. Il mondo sarebbe ampliamente rappresentato, garanzia di una pace duratura.

Nell’intesa tra Russia e Ucraina oltre a un primo necessario armistizio, convoglieranno anche gli aspetti concernenti i territori da cedere e riprendere, le sanzioni, le riserve russe congelate in Occidente, la ricostruzione, gli aspetti relativi al controllo dei confini e quindi il mantenimento della pace attraverso l’intervento dell’Onu.

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