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C’è un tono ironico nel fatto che Donald Trump, nel tentativo di ridefinire a modo suo l’ordine transatlantico, sia riuscito dove Bruxelles aveva, per ora, sempre più o meno fallito. Spingere le intelligence europee a fidarsi l’una dell’altra.

Fare di necessità virtù

Quando, lo scorso marzo, la Casa Bianca ha interrotto bruscamente la condivisione di informazioni militari con Kyiv, hanno chiarito un netto cambio di rotta rispetto alla visione degli Stati Uniti come partner prevedibili. Da qui, molte capitali europee hanno iniziato a muoversi in autonomia, intrecciando nuovi canali di cooperazione e costruendo, pezzo dopo pezzo, una rete d’intelligence che era rimasta, fino a poco tempo fa, uno dei tanti progetti mai davvero terminati ma mai pienamente realizzati.

Nel corso dell’ultimo anno, diversi Stati membri hanno schierato propri ufficiali d’intelligence presso le rappresentanze permanenti a Bruxelles. L’Intelligence and Situation Centre (Intcen) dell’Unione, il cuore analitico del Servizio europeo per l’azione esterna, ha intensificato i briefing ai vertici della Commissione e del Consiglio, agendo sempre più come il laboratorio di un embrione di una vera e propria intelligence europea. Una trasformazione che, più che pianificata, risulta indotta dalla necessità.

«Trump meriterebbe un Nobel per aver unito i servizi europei», ha dichiarato con amara ironia un funzionario occidentale a Politico. Il messaggio è chiaro: l’imprevedibilità di Washington sta spingendo l’Europa verso una cooperazione di difesa più autonoma, più continentale e più consapevole delle proprie vulnerabilità, necessità e priorità.

Il ritorno dei club segreti

Senza un quadro ufficiale, gli europei hanno riscoperto antiche architetture informali come il Club de Berne, un consesso discreto di servizi segreti fondato quasi cinquant’anni fa in Svizzera per coordinare scambi di informazioni fuori dalle logiche comunitarie. Club che, negli ultimi anni, includendo alla Svizzera anche Norvegia e Regno Unito, aveva iniziato a sincronizzare i propri lavori con la presidenza di turno del Consiglio Ue, segnale di un’integrazione crescente tra intelligence nazionale e dimensione europea.

Nel frattempo, riporta Politico, l’ex presidente finlandese Sauli Niinistö, su richiesta di Ursula von der Leyen, ha rilanciato l’idea di un’agenzia d’intelligence europea sul modello Cia. Una struttura “in grado di rispondere ai bisogni strategici e operativi dell’Unione” e di coordinare una “rete antisabotaggio” per la protezione delle infrastrutture critiche.

L’attuale direttore di Intcen, il croato Daniel Markić, ha ricevuto il mandato di rafforzare la catena informativa fino ai vertici politici, in particolare alla presidente della Commissione e all’Alto rappresentante Kaja Kallas.

Il cortocircuito ungherese

Se Trump ha unito, seppur involontariamente, Orbán divide. Proprio mentre Bruxelles prova a costruire una cultura di fiducia reciproca, lo scandalo di una presunta rete di spionaggio ungherese operante nella capitale europea tra il 2012 e il 2018, durante il periodo in cui Olivér Várhelyi, oggi commissario europeo alla Salute, era ambasciatore dell’Ungheria presso l’Ue, ha innescato una crisi politica. Il Parlamento europeo chiede chiarimenti, alcuni gruppi, dai Verdi ai Socialisti, come riportato da Politico, invocano le dimissioni di Várhelyi, e la Commissione ha avviato un’indagine interna in collaborazione con i servizi belgi. Un test non solo per la trasparenza delle istituzioni, ma per la credibilità stessa del nascente ecosistema d’intelligence europeo.

Sovranità e fiducia

L’autonomia strategica non è solamente questione di riarmi e battlegroup o politiche industriali, ma anche di fiducia, trasparenza e cooperazione effettiva. La sovranità europea farà di questi punti i suoi pilastri, cercando di mettere a sistema una cooperazione intelligence che si muoverà, presumibilmente, attraverso canali di analisi condivisi.

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