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Quando Pier Paolo Pasolini decide di affrontare la trasposizione cinematografica della vita di Gesù, da attento filologo del testo e da autore di opere narrative, quale egli è, ben conosce il confine tra fedeltà al testo e l’interpretazione dello stesso nell’universo della finzione. Egli sceglie, tra i quattro Vangeli (i tre sinottici e il giovanneo) quello di Matteo. Perché Matteo fu uno dei primi testimoni della vita di Gesù, perché tra i quattro Vangeli è il primo redatto (tra il 40 e il 50 d.C.; i Vangeli di Marco e Luca seguono la stessa struttura narrativa), ma anche perché l’uomo delle tasse, Levi, da “matematico”, redige una vita che pone in primo piano la “cronaca”, diremmo oggi, più che l’interpretazione, come farà poi Giovanni nel suo Vangelo.

Quello che spiazzò lo spettatore di allora, come quello di oggi, sono i silenzi di Maria, di Giuseppe, e in genere le poche battute riservate agli apostoli, che sono, del resto, quelle presenti nel testo. Pasolini segue fedelmente il racconto di Matteo: il suo Vangelo, come sappiamo, si attiene soprattutto ai discorsi di Gesù.

Lo spettatore, rivedendo il film di Pasolini oggi, lo confronta, automaticamente, con quello il Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli, tratto dai quattro Vangeli e ma anche da altri testi, sia di autori mistici che da rivelazioni “private”. Nel film di Zeffirelli (sceneggiato da Anthony Burgess e Suso Cecchi D’Amico, F. Zeffirelli), la finzione va oltre il testo evangelico, e permette sia Maria che a Giuseppe, per esempio, di parlare, sia quando Giuseppe è sorpreso dalla inopinata gravidanza di Maria sia quando si mettono in cammino per Betlemme e, successivamente, debbono sistemarsi in una grotta per il parto di Maria.

Lo spettatore comune di allora, come quello di oggi, di fronte al silenzio di Giuseppe e Maria, che si guardano senza parlarsi, nota qualcosa di innaturale. Pasolini evita i sorrisi di entrambi, concentrato sul dare il senso della preoccupazione di un figlio inatteso. La resa recitativa purtroppo sa di teatrale, magari da teatro d’avanguardia, ma lontana dalla naturalezza quotidiana. Qui a Pasolini è probabilmente mancata l’esperienza di un Carl Th. Dreyer o di un Robert Bresson, sia nella scelta dei volti che nella direzione degli attori, soprattutto durante i silenzi.

Anche la scelta anti-iconografica di presentare Giuseppe (e poi gli apostoli) senza le barbe lunghe, ma con i volti non rasati da alcuni giorni, diminuisce l’identificazione dello spettatore con il mondo ebraico di allora. Accade che Giuseppe, dal giorno in cui saprà, in sogno, dall’Angelo che il bambino è figlio di Dio, sino a Betlemme, mantenga sempre la stessa barba, appena accennata, indebolisce il tratto realistico, necessario in una narrazione temporale, a vantaggio del simbolico caro all’autore.

Un altro aspetto che raffredda la partecipazione empatica dello spettatore verso i personaggi è la scelta di Pasolini di una Maria, quando Gesù inizia la sua vita pubblica, e poi sulla croce, volutamente troppo matura (Margherita Caruso).

L’affidare a Enrique Iraqui la parte di Gesù non fu apprezzato dal largo pubblico. Nell’immaginario popolare, ma anche in base alle diverse rivelazioni private (al tempo già si conosceva, per esempio, il volto di Gesù Misericordioso, di Faustina Kowlaska), il Gesù che tutti si aspettavano sullo schermo era biondo e con i capelli leggermente sulle spalle, insomma quello successivo del Robert Powell di Zeffirelli.

Per alcuni, inoltre, sul piano del linguaggio filmico, vi era/è un eccessivo uso della camera in movimento (carrelli, panoramiche e zoom in abbondanza), ma, va ricordato, il film è da collocarsi all’interno dell’estetica degli anni Sessanta che aveva “liberato” la camera dal tripode.

Tutti questi “limiti”, in un certo senso, raffreddano l’identificazione emotiva dello spettatore con la vicenda di Gesù, come invece non avverrà con il film di Zeffirelli: ma nel racconto pasoliniano deve emergere soprattutto il messaggio, il testo evangelico, e dunque egli opta per uno stile più documentario e meno finzionale. Questo era l’intento artistico di Pasolini: commuovere con razionalità.

Se la rapidissima zoomata dall’alto della collina sul fiumiciattolo in cui Giovanni (l’ispanista Mario Socrate: forse l’unico non-attore dalla performance ineccepibile) sta battezzando, sa troppo di Sergio Leone fuori posto; se la camera a mano insistita nel seguire le folle o i gruppi degli apostoli talvolta deborda; se capita uno scavalcamento di campo o l’inquadratura traballante (al montaggio Nino Baragli fece dei miracoli), vi sono, d’altro canto, scene davvero ben girate e indimenticabili.

Si veda, per esempio, l’entrata di Gesù a Gerusalemme con i teli stesi da adulti e ragazzi, sulla polvere della strada, prima che egli arrivi sull’asinello: la scena ci sorprende anche per la chiusa a plongée, alla Jean Vigo. Oppure, il ribaltamento dei banchi nel Tempio, da parte di un Gesù, come sappiamo, arrabbiato (con il velo nero che gli rimane sulla spalla sinistra): ha la stessa santa foga del Gesù (Robert le Vigan) di Golgotha (1935) di Julien Duvivier. Ancora. Il processo di Caifa, visto a distanza, in campo medio, dagli occhi di Pietro: qui, saggiamente, la soluzione anti-emotiva traduce il tormento di Pietro dopo il rinnegamento; la camera (sono gli occhi di Pietro) costretta a zig- zagare tra le teste degli astanti per cercare di seguire da lontano il dramma dell’amico tradito. Infine, il ricorso al particolare/dettaglio degli occhi a tutto schermo (per es. quelli sofferenti di Giovanni quando Gesù viene crocifisso) sono un chiaro omaggio alla Passione di Giovanna d’Arco (1928) di Carl Th. Dreyer.

Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, «il più bel film realizzato sino ad oggi su Gesù» (Osservatore Romano, 3 settembre 1964) per anni film da cineclub, legato all’estetica anti-spettacolare degli anni Sessanta, andrebbe rivisto e proiettato ai giovani. Un racconto che non accontenta tutto il pubblico il quale, nella maggior parte, gli preferisce il Gesù di Zeffirelli, ma che ha segnato la storia del cinema grazie a scene indimenticabili. Un quasi capolavoro.

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