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Le sovvenzioni pubbliche alla carta stampata hanno promosso l’arricchimento del panorama dell’informazione oppure ostacolato la competizione fra operatori realmente meritevoli, falsando l’autentico pluralismo delle voci? Ed è giusto che i giornali tradizionali ricevano ogni anno un flusso rilevante di risorse statali, a fronte di un’informazione on line che ne è priva e tutti i giorni deve confrontarsi con le leggi del mercato e della concorrenza? L’inchiesta realizzata da Formiche.net ha messo in luce, oltre ai contributi per le testate politiche, di cooperative e fondazioni e ai robusti sgravi fiscali per l’acquisto di carta, le telecomunicazioni, le spedizioni postali, un volume considerevole di fondi derivanti dalla pubblicità istituzionale di regioni ed enti locali.

Un tema che ha alimentato la riflessione degli editori e dei direttori di prestigiose testate telematiche. Adesso, a ragionare su uno squilibrio sempre più visibile nella realtà mediatica del nostro paese sono i rappresentanti delle forze politiche presenti in Parlamento. Ascoltare la loro voce è tanto più prezioso visto che l’origine dei cospicui finanziamenti alla carta stampata risiede in una legislazione per molti versi superata dallo sviluppo tecnologico e dalla rivoluzione digitale. Tuttavia molti di loro negano che le elargizioni, dirette e indirette, possano nuocere alla libertà editoriale e all’autentica concorrenza nell’offerta di news.

IL PUNTO DI VISTA DEL CARROCCIO

Favorevole al mantenimento di contributi pubblici e a un loro ridimensionamento calibrato sull’informazione di qualità è il parlamentare della Lega Nord Davide Caparini. Il quale parla di “un panorama caratterizzato dall’intreccio di gruppi industriali in cui la figura dell’editore puro è una chimera e che oggi deve fronteggiare una crisi di mercato senza precedenti”. Per questa ragione, rimarca l’esponente del Carroccio esperto di telecomunicazioni, le risorse dello Stato devono essere spese meglio e in modo parsimonioso: “Non come i fondi concentrati nel servizio pubblico radio-televisivo con risultati qualitativi discutibili e mancate ricadute sul mercato mediatico”. Riguardo ai finanziamenti alle testate partitiche la sua è una lettura molto prudente: “Lo sforzo compiuto con la riforma dell’editoria del 2012 di collegare i contributi a standard qualitativi e occupazionali nonché a un bacino di lettori autentico ancora non ha prodotto i suoi effetti. È bene attendere, perché tagliare ulteriormente le risorse destinate a una quota di mercato già ridotta mi sembra una forzatura”.

Nel nostro Paese esiste anche un flusso rilevante di denaro che foraggia le testate cartacee in forma indiretta. È la pubblicità istituzionale – bandi, concorsi, avvisi, iniziative di grande interesse – che le amministrazioni territoriali pubblicano sui giornali. E che potrebbe essere trasferita interamente sui siti istituzionali web di regioni ed enti locali o riequilibrata tra i vari media comprese le testate telematiche a buona diffusione. Era orientato in tale prospettiva l’ordine del giorno presentato dalle “camicie verdi” alla Camera dei deputati nell’aprile 2012. Rimarcando “l’enorme e ingiustificabile squilibrio tra il 15 per cento di risorse per pubblicità istituzionale locale destinate a radio e tv locali e il 50 per cento a favore della carta stampata”, i parlamentari del Carroccio chiedevano di “bilanciare gli investimenti in proporzione ai contatti giornalieri che i media garantiscono. Aumentando al 35 per cento la percentuale radio-televisiva locale e riducendo al 30 quella per i giornali cartacei”. Un’iniziativa “di buon senso”, ricorda il parlamentare leghista, liquidata come inammissibile dall’esecutivo guidato da Mario Monti e dal ministro dell’Economia Vittorio Grilli, e respinta dall’Aula con un’amplissima maggioranza: “Molti dei rappresentanti che la bocciarono con superficialità e leggerezza più tardi si sono ricreduti. Vedremo se, con l’esame della legge di stabilità, riusciremo a ricreare un equilibrio minimo dopo la stagione dei tagli lineari indiscriminati al comparto editoriale”.

Più articolata la sua analisi sulla legittimità di agevolazioni pubbliche a favore dell’informazione giornalistica on line. Una frontiera, spiega, che ancora non ha espresso tutte le proprie potenzialità rispetto a una carta stampata che conservano un valore e pregio non solo affettivi. La strada da intraprendere è “la convergenza multimediale dello stesso prodotto giornalistico, favorita da sgravi fiscali come l’IVA eguale fra quotidiani tradizionali e testate telematiche”. A una condizione però: “Le agevolazioni tributarie non possono costituire un alibi preventivo per accedere ai fondi pubblici prima di elaborare e pubblicare notizie”.

LA TESI DEL PARTITO DEMOCRATICO

Fermamente contrario a ogni idea di abrogazione o ridimensionamento dei finanziamenti all’editoria giornalistica tradizionale è l’ex parlamentare del Partito democratico Vincenzo Vita, tra i massimi esperti di telecomunicazioni nel mondo progressista. A suo giudizio, meritevoli di una robusta tutela statale sono le testate politiche: “Un segmento speciale di un mercato informativo prigioniero, non da oggi, di una crisi profonda. E che non potrebbe sopravvivere senza un’iniezione di risorse pubbliche”. È giusto, rimarca l’ex senatore del Pd, il supporto dello Stato per il centinaio di quotidiani che vivono di una scelta non pubblicitaria e al di fuori dei grandi numeri. E che puntano sulla rappresentazione delle opinioni di minoranza e di realtà associative, ecclesiali, locali. Non assimilabili al mercato tout court.

Non sono certo tali sovvenzioni, puntualizza Vita, a falsare la competizione editoriale e giornalistica: “Perché in gioco è il proseguimento di esperienze preziose, nel rispetto dell’articolo 21 della Costituzione. Peraltro i contributi pubblici per l’informazione fuori mercato esistono in numerosi paesi europei, se pur nella forma del credito di imposta”. Tuttavia la loro distribuzione è divenuta fonte di abusi, privilegi, illegalità che hanno premiato testate fittizie utili a foraggiare micro-partiti. L’esponente democrat riconosce il “passo in avanti realizzato con la riforma dell’editoria del 2012, che ha posto criteri rigorosi per richiedere e accedere ai fondi. Ancorando l’elargizione delle risorse alle copie effettivamente vendute e alla previsione di contratti di lavoro a tempo indeterminato, le nuove norme hanno moralizzato e ristretto la platea dei beneficiari, provocando una selezione virtuosa dei titolari dei contributi”.

Molto meno scandalosa, agli occhi di Vita, la realtà dei finanziamenti indiretti alla carta stampata generalista, che nel mercato può vivere grazie a forti gruppi editoriali e industriali: “Per i grandi giornali l’ultimo vero privilegio, calcolato in 50 milioni di euro annui, è nell’IVA pagata a forfait. Le tariffe postali agevolate sono state abrogate dal governo Berlusconi. Restano quelle telefoniche e per l’acquisto della carta, ma sono legate alla legge dell’agosto 1981 sulla conversione tecnologica del panorama informativo. Mentre la pubblicità istituzionale è in via di superamento, per le politiche di risparmio degli enti locali che oggi trasmettono sui quotidiani solo le comunicazioni obbligatorie e strettamente necessarie”. L’autentico “buco nero”, osserva il rappresentante del Nazareno, riguarda l’editoria in Rete. Tranne i giornali cartacei che si trasformano in testate telematiche, nessun organo di informazione del Web gode di un supporto statale. Per questo motivo, egli propone un “piano di sostegno pubblico straordinario per l’intero panorama editoriale digitale, che permetta alle testate on line una piena professionalizzazione nell’arco di 3-5 anni”.

Continuare a finanziare Corriere della Sera e giornaloni di carta? Politici a confronto

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