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Il dibattito sull’emendamento Boccia-Carbone dà il segno delle due componenti che dominano il dibattito sugli “over-the-top” (OTT) in Italia: la lobby degli editori e Telecom. La prima lamenta la perdita di pubblicità causata o accelerata dagli OTT, la seconda l’utilizzo “a scrocco” dell’infrastruttura di rete da parte degli OTT, che non contribuiscono – perlomeno non direttamente – al suo sviluppo.

I SENTIMENTI DI EDITORI E TELECOM

Telecom è attualmente assorbita dal dibattito sulla proprietà ed è venuto meno Franco Bernabè, fino a poco fa presidente di Telecom e grande capo della lobby anti-OTT, mentre gli editori non mollano la presa come segnala un emendamento tutto focalizzato sulla pubblicità.

LA QUESTIONE OTT

In realtà gli OTT sono molto di più che un semplice dossier sulla raccolta pubblicitaria, e non operano affatto in regime di gratuità. Gli OTT esigono infatti dagli utenti un prezzo non monetario come contropartita dei propri servizi. Come ha spiegato molto bene il Professor Juan Carlos De Martin del Politecnico di Torino nel numero 62 di Aspenia ora in edicola:

Ci sono, però, almeno altri tre componenti non monetarie del prezzo relativo all’uso delle piattaforme. Innanzitutto gli utenti nel momento in cui iniziano ad usare una piattaforma, accettano (in genere implicitamente) le condizioni di servizio (in inglese ‘terms of use’ o ‘terms of service’), che quasi sempre prevedono la concessione al gestore della piattaforma di una licenza non-esclusiva, perpetua e irrevocabile per i contenuti caricati dall’utente. I testi, le fotografie, i video dell’utente potranno quindi essere legittimamente e liberamente utilizzati dalla piattaforma (o da chi per essa) per propri fini. La terza componente del prezzo è che, a differenza dei mass media novecenteschi, i siti web (tutti i siti web, non solo le grandi piattaforme) hanno la possibilità di registrare qualsiasi azione effettuata dall’utente sul sito stesso. Il comportamento dell’utente può quindi venir integralmente registrato, e non solo nella sua parte pubblica (per esempio, per quali link ha cliccato ‘mi piace’) ma anche nella sua parte apparentemente non tracciata, per esempio, quali pagine di Facebook è andato a visitare, quando, in quale ordine, quanto spesso, eccetera. Tale comportamento può essere analizzato per molti fini, il più evidente essendo quello di creare profili pubblicitari (eventualmente vendibili a terzi), in modo da poter mostrare all’utente pubblicità altamente personalizzate. In ogni caso, l’utente non ha in generale accesso neanche ai dati relativi al proprio comportamento, che potrebbero essergli utili per conoscersi meglio, magari applicando strumenti analitici di terzi. La quarta componente del prezzo è che tutti i dati – sia quelli caricati esplicitamente dagli utenti, sia quelli generati (spesso inconsapevolmente) dalle attività degli utenti sulla piattaforma – sono centralizzati nei server di una sola azienda. E’ quindi possibile che un singolo attore possa accedere, in un colpo solo, ai dati di milioni, se non di miliardi di utenti. Se il Web fosse rimasto distribuito, lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere solo accedendo a un numero molto elevato di server distribuiti in migliaia e migliaia di case, uffici, università, associazioni, eccetera.

Così stando le cose, anziché focalizzarsi sulla raccolta pubblicitaria, come punta a fare la Google Tax di Boccia, vale la pena di studiare soluzioni che interessino la totalità degli OTT e che non siano una semplice gabella per giunta scritta con un drafting zoppicante e a rischio di confliggere con princìpi europei.

SOLUZIONE ALLA FRANCESE?

Come fare? La task force francese sulla tassazione dell’economia digitale da un lato ha enfatizzato il business legato alla sistematica raccolta e rivendita di profili, dall’altro ha ipotizzato una tassa basata non sulla raccolta pubblicità ma sull’effettivo consumo di banda – unico modo per fare i conti con una categoria, quella degli OTT, tanto ampia quanto eterogenea.

Vi spiego perché la Google Tax all'amatriciana non mi convince

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