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Il vero e più profondo obiettivo che i leader politici si prefiggono nel popolare i loro account social di contenuti giornalieri non è quello di una conta spicciola dei like: uno, dieci o cento in più di tutti gli altri.

Correre più veloce degli avversari sulla pista delle metriche di vanità è un esercizio fine a sé stesso, una fatica da Sisifo 2.0 che interessa soltanto coloro che ancora pensano che la sfida digitale permanente si esaurisca in un mero calcolo aritmetico delle interazioni dopaminiche. Il presidio strategico della rete, in particolare delle piattaforme social, invece, ha una duplice ambizione: da un lato governare in modo reputazionale quelle comunità cognitive, che si consolidano in tempi rapidi su temi polarizzanti, e che influenzano l’opinione pubblica online condizionandone la direzione, e dall’altro punta a incunearsi orizzontalmente nella quotidianità degli utenti depolarizzati, cioè di coloro che sono refrattari per diverse motivazioni a lasciarsi trascinare nei vortici delle polarizzazioni politiche, ma che comunque presto o tardi diventano degli elettori.

Quest’ultimi, che per la verità rappresentano la maggioranza, più dei pubblici che si accapigliano nelle bolle motiveranno le loro scelte di voto a l’uno o all’altro leader anche in considerazione dei like che nei mesi e negli anni hanno lasciato sotto ai post, ovvero per dirla diversamente, in considerazione del livello di familiarità digitale instauratosi nel tempo con il leader.

Ecco perché la capacità di ciascun leader di stare dentro i due solchi, che spesso s’intrecciano e si sovrappongono, costituisce l’unità di misura per comprendere poi quale e quanta attenzione digitale questi riescono a ottenere dai pubblici digitali.

Il successo o meno di una strategia di pubblicazioni social, determinata dalle percentuali di audience che catturano rompendo il cemento armato della nostra distrazione, rappresenta per i leader lo stress test anticipato dei loro posizionamenti.

Ci restituisce il metro con il quale i follower ne percepiscono la credibilità, intesa non soltanto rispetto a un ruolo politico-istituzionale, ma prima di tutto come persone che potrebbero convivere con le nostre vite ordinarie. La credibilità è una qualità circoscritta dall’autenticità, ovviamente percepita come tale, con la quale viene raccontata la vita digitale del leader. Però se è vero, come scrive Derrick de Kerckhove che “nella nostra società i leader li crea l’algoritmo e i cittadini si adeguano a comportamenti e decisioni imposti dalla tecnologia”, è altrettanto vero che l’algoritmo impara dai nostri comportamenti, dalle nostre reazioni, dal modo in cui ci relazioniamo con un contenuto, pertanto diventa fondamentale iniziare a dare a questa miniera di informazioni una interpretazione e una classificazione. Non foss’altro per comprendere gli umori, digitali, dei cittadini.

Alla luce di questo ragionamento potremmo anche iniziare a scrutare l’orizzonte elettorale, dall’Abruzzo alle europee di giugno, integrando i sondaggi campionari con i dati digitali, a partire da quelli degli account dei leader che collezionano milioni di interazioni.

 

 

I like finiscono (molto spesso) nell’urna. Il commento di Giordano

L’algoritmo impara dai nostri comportamenti, dalle nostre reazioni, dal modo in cui ci relazioniamo con un contenuto, pertanto diventa fondamentale iniziare a dare a questa miniera di informazioni una interpretazione e una classificazione. Non foss’altro per comprendere gli umori, digitali, dei cittadini. Il commento di Domenico Giordano

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