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Due milioni, praticamente un italiano su trenta. Tanti sono i professionisti che operano nella creatività in Italia e che adesso vogliono fare una #rivoluzionecreativa.

La mobilitazione, promossa da Alfredo Accatino, Artistic & Creative Director Filmmaster Events, e sostenuta in rete attraverso una petizione sul sito Change.org (ecco i temi caldi posti all’attenzione dell’opinione pubblica), nasce dall’esigenza di dare dignità a un settore, quello della creatività (nel senso ampio del termine), sottovalutato ma che a conti fatti ha una valenza strategica ed economica estremamente rilevante. I “creativi” rappresentano il cuore produttivo di 350.000 aziende. Le attività legate a questo ambito generano il 5,8% del Pil nazionale solo nell’industria culturale, per un valore di 80,8 miliardi di euro (secondo il Rapporto 2013 Unioncamere/Fondazione Symbola).

Ma nonostante questi numeri, copywriter, art director, grafici, designer, giornalisti (di ultima generazione, si potrebbe aggiungere), blogger, oltre che professionisti della moda, dello spettacolo, dell’industria culturale, dell’editoria e dei media, sono profili ignorati dalle istituzioni e non hanno rappresentanza politica, mediatica e sindacale. Proprio per questo, molti hanno estrema difficoltà a portare avanti le proprie attività e le proprie imprese.

Accatino e i firmatari della petizione chiedono perciò al governo, ai sindacati e alle forze sociali l’attuazione di iniziative giuridiche e istituzionali concrete che tengano conto delle esigenze della filiera creativa, in termini di tutela del lavoro e di diritto d’autore, e sollecitano i “creativi” stessi a partecipare più attivamente alla vita sociale e politica del Paese.

Questo è l’ennesimo caso che fotografa la situazione a casa nostra. Lo vediamo nelle aziende (grandi, medie o piccole che siano), nelle redazioni, nel mondo accademico: le figure appartenenti al mondo della ricerca tecnologica, dei nuovi media e della comunicazione e che rappresentano le vere risorse del futuro del Paese nelle sfide della globalizzazione, vengono – non si sa per quale strano motivo – viste come “professioni-non professioni”, perché non assorbite culturalmente dal tessuto sociale.

«La creatività salverà il mondo, chi salverà la creatività?», si chiede Accatino. Ma viene anche da chiedersi: per quanto ancora il nostro Paese continuerà a rigettare il cambiamento nonostante il mercato del lavoro abbia palesemente subito un’evoluzione? Spesso è proprio all’interno di quelle categorie che per prime dovrebbero farsi portatrici del cambiamento che si tende ciecamente a preferire l’immobilismo e il mantenimento dello status quo. Basti pensare al giornalismo.

Poche professioni hanno dovuto affrontare la rivoluzione radicale causata dal diffondersi delle nuove tecnologie come quella del giornalista. Eppure nelle redazioni oggi sono parecchi quelli che non riescono ad accettare certi cambiamenti. Primo fra tutti, quello per cui il giornale cartaceo sta diventando inesorabilmente anacronistico.

Ma la cosa più ridicola è che in Italia si continua a parlare di Internet come “il futuro” e non ci si rende conto che invece è – e lo è da un pezzo – il presente. Forse è per questo (e la domanda è retorica) che il cosiddetto “new journalism” viene considerato come se fosse la variante “meno seria” di quello tradizionale? O forse la ragione per cui davvero viene tanto odiato è il timore che incute? Perché, parliamoci chiaro, “nuovo” vuol dire nuove competenze, quindi nuovi equilibri. In pratica una minaccia, una specie di bomba a orologeria per le cosiddette “caste”.

Da che mondo è mondo, le società più chiuse reagiscono così al progresso. Senza rendersi conto che opporsi a certe dinamiche è rischioso e controproducente. E che accorgersi troppo tardi di un cambiamento o rifiutare di adattarvisi porta inevitabilmente all’autodistruzione.

E allora sì, ben venga una #rivoluzionecreativa. Purché sia efficace e radicale.

Perché il futuro bisogna abbracciarlo, non rinnegarlo.

di Alma Pantaleo

 

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