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Nonostante gli appelli incessanti di Giorgio Napolitano, in questi anni sulla questione meridionale è calato un silenzio surreale. È ritornata brevemente agli onori della cronaca solo dopo la pubblicazione del Rapporto Svimez per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità. Enrico Letta in qualche discorso parlamentare l’ha menzionata, ma nel dibattito pubblico e nella stessa Legge di stabilità non ne resta traccia.

Ma perché non si parla quasi più del Mezzogiorno? Ha certamente pesato il ridimensionamento del suo tradizionale ruolo chiave nella raccolta del consenso, per i partiti di entrambi gli schieramenti. Si è fatto tuttavia sentire anche un forte sentimento di sfiducia e di stanchezza, dilagato dopo decenni di retorica meridionalistica e sprechi enormi di risorse della collettività.

Bisogna ammetterlo senza ipocrisie: nel Sud il mercato e i diritti, il merito e il rispetto dell’ambiente hanno storicamente subito la tirannide di uno statalismo pervasivo e parassitario, che ha nutrito affaristi, potentati locali e burocrazie ministeriali, consorterie mafiose e criminali. E cioè quella coalizione della rendita che costituisce il principale ostacolo allo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali.

Clientelismo e assistenzialismo hanno così foraggiato un “capitalismo politico”, che ha spiazzato chi intendeva operare correttamente sul mercato legale. Studiosi di rango come Nicola Rossi e Gianfranco Viesti (ma penso anche a un industriale come Ivan Lo Bello) hanno ragione quando sostengono che nel Sud non manca la volontà di fare impresa, ma essa viene frustrata da una politica che chiede agli imprenditori di essere altro da sé: di non essere imprenditori, se vogliono fare gli imprenditori. In altri termini, se un’ora spesa per acquisire qualche beneficio pubblico è più redditizia di un’ora spesa in laboratorio per sperimentare un nuovo prodotto, i valori della competizione e della concorrenza risulteranno comunque perdenti e destinati all’oblio.

Il Mezzogiorno, insomma, non ha bisogno di un sistema di incentivi che – dalla vecchia Cassa alla nuova Programmazione- ha distorto profondamente sia la crescita economica sia la selezione delle classi dirigenti meridionali. Ha bisogno, invece, di tornare a vedere lo Stato impegnato nelle sue funzioni essenziali e solo in quelle: amministrare la giustizia, garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, fornire servizi sanitari ed educativi, “infrastrutturare” il territorio. Ha bisogno, inoltre, di utilizzare i finanziamenti europei anzitutto per l’innovazione industriale e il risanamento urbano.

Nel Sud esistono le energie politiche, sociali e intellettuali disponibili a raccogliere questa sfida sul terreno delle riforme (per giunta, in prevalenza a costo zero). Ma devono essere aiutate di più da Roma ad aiutarsi da sole. Altrimenti si convinceranno, non a torto, che non è il Mezzogiorno il problema dell’Italia, ma l’Italia il problema del Mezzogiorno.

infocamere, mezzogiorno, industria, sud

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