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Poste italiane entrerà in Alitalia partecipando con 75 milioni a un aumento di capitale di circa 300 milioni. Altri 75 milioni arriveranno da garanzie pubbliche e 150 circa dai soci privati. Infine ci saranno linee di credito bancario per 200 milioni.

E’ questa la soluzione trovata per far fronte alla disastrata situazione finanziaria della compagnia aerea. Non si esclude un possibile, successivo intervento della finanziaria statale Fintecna, dopo che la Cassa depositi e prestiti per lo statuto vincolante del Fondo strategico non poteva intervenire visto che Alitalia è una società in perdita.

Ci si può ovviamente stracciare le vesti perché a una società a totale controllo del Tesoro, ovvero Poste Italiane, il governo intima di partecipare alla ricapitalizzazione di una dissestata azienda privata sull’orlo del fallimento; ed è cosa buona e giusta.

Ed è cosa buona e giusta invocare un piano industriale per chiarire strategie e tattiche, oltre che reali sinergie imprenditoriali tra Poste e Alitalia.

E naturalmente sono gustose le ironie sull’esperienza nel settore aereo di Poste Italiane visto che la sua compagniuccia aerea, la Mistral, è stata oggetto da anni di cronache poco commendevoli e non solo per i conti perennemente in rosso.

Tutto giusto.

Ma l’alternativa qual era? Il fallimento o il passaggio definitivo ad Air France in condizioni di prostrazione economica e finanziaria. Evidentemente il liberale pragmatico Enrico Letta, abbandonando le teorie pro mercato e anti statalismo stile Arel, stando a Palazzo Chigi ha preferito una soluzione di sistema (dopo i capitani privati coraggiosi, i capitali pubblici coraggiosi). Cercando di dare ulteriore linfa finanziaria, salvando anche le linee di credito delle banche impegnate con Alitalia e guadagnando tempo utile per trovare un futuro meno traumatico, seppure sempre estero, con Parigi sempre in prima fila.

Può piacere o meno, ma tant’è.

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