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Siamo arrivati a un punto di svolta nella ultradecennale tenzone fra gli stati nazionali europei e le entità sovranazionali europee.

Me ne sono convinto leggendo un articolo pubblicato il primo ottobre scorso sul Financial Times firmato dal governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, che ha il pregio, essendo destinato a un vasto pubblico (anche se di settore) della chiarezza. Anche se c’è molto di non detto in quello che c’è scritto.

Di che parla Weidmann? Il pezzo si intitola “Bisogna smetterla di incoraggiare le banche ad accumulare debito sovrano”. Tema assai gettonato nel dibattito sull’Unione Bancaria, e del quale più volte ho scritto.

In sostanza, dice Weidmann, bisogna “spezzare il collegamento fra banche e debito sovrano”. Un collegamento, sottolinea il governatore, “disastroso” che il progetto di Unione bancaria si propone di spezzare una volta per tutte.

Per farvela semplice, lo schema è questo: le banche prendono a prestito dalla Bce all’1% e comprano bond decennali dello stato dove risiedono guadagnandoci un sostanzioso rendimento differenziale. In Italia, per dire, il rendimento del decennale quota oltre il 4%. “Questa specie di carry trade – scrive Weidmann – sostiene la bassa profittabilità di queste banche e pospone il necessario aggiustamento”.

Per dare un’idea di quanto sia diffusa questa pratica, il nostro governatore fornisce un dato: “La quota di bond sovrani dell’eurozona negli asset bancari totali dell’area è aumentata di un quinto, negi ultimi cinque anni, passando da 4 al 5,3%”. Con l’avvertenza che questa media maschera importanti differenze nei singoli paesi.

“Studi recenti, uno dei quale della Bundesbank – spiega – evidenziano che grandi banche, banche meno capitalizzate e banche che dipendono dal finanziamento a breve investono più di altre in debito sovrano”. Da ciò si deduce che “più le banche sono vulnerabili più investono nel debito sovrano”. E più il debito sovrano è vulnerabile, più avrà bisogno delle sua banche residenti per rimanere in piedi, si potrebbe glossare.

E il pensiero corre al nostro Monte dei Paschi, che proprio in questi giorni ha comunicato che diminuirà la quota di titoli di stato italiano presenti nel suo portafoglio.

Le ragioni per tali pratica sono diverse, sottolinea Weidmann: la ricerca di rendimenti, la moral suasion, il tentativo di stabilizzare il debito sovrano o considerazioni di tipo strategico”: Quel che conta, sottolinea, è che “se il debito sovrano di uno stato va in defalut è probabile che le banche facciano defalut a loro volta”.

E tuttavia “le banche hanno incentivi a investire in bond sovrani finché le cose vanno bene, quello che avverrebbe in caso di default non è considerato rilevante, e questo mina la disciplina di mercato per il governo e rallenta gli incentivi a fare le riforme strutturali”. “Dall’altra parte – aggiunge – le banche, che possono ottenere cash illimitato in cambio di collaterale sovrano, sono disincentivate alla disciplina nei confronti degli investitori che affidano loro dei fondi”.

Disciplina a parte, c’è un’altra controindicazione in questa pratica. L’aumento di acquisti di bond sovrani diminuisce la possibilità per le banche di prestare denaro all’economia reale: “Le banche esposte sul debito sovrano hanno ridotto i prestiti al settore privato”, osserva.

Alla radice di questo problema c’è un fatto regolamentare.

I principi del Comitato di Basilea sull’adeguatezza dei requisiti patrimoniali delle banche, infatti, prevedono che il possesso di bond sovrani non generi l’esigenza di nuovo capitale. In pratica, i bond sovrani vengono considerati asset sicuri, risk free, che, di conseguenza, non richiedono addizioni di capitale per essere sostenuti.

Senonché, dice Weidmann, l’esperienza dimostra che così non è: “La corrente assunzione regolamentare che i bond governativi siano risk free è stata sconfessata dalla recente esperienza. I tempi sono maturi – conclude – per affrontare il trattamento normativo dei bond sovrani. Senza tale revisione non vedo possibilità di spezzare il legame fra banche e debito sovrano”.

L’ultima notazione che vale la pena riportare è la considerazione che una volta che tale legame verrà spezzato, “un sistema bancario sano con una migliore diversificazione porrebbe meno oneri per gli stati (in caso di salvataggi, ndr), quindi le passività potenziali del governo potrebbero diminuire, riducendo di conseguenza il rischio di investire sul debito sovrano e quindi abbassando i relativi rendimenti”.

Tutto è bene quel che finisce bene.

Provo a ricapitolare.

Le banche comprano i bond sovrani, e così’ facendo indeboliscono la disciplina degli stati, che potendo contare su tali “compratori di ultima istanza”, non fanno le riforme strutturali, e insieme indeboliscono la propria disciplina di mercato oltre a fare sempre meno quello che dovrebbero fare (prestare i soldi all’economia reale) per fare quello che fanno (carry trade con i soldi della Bce). Ciò accade perché i bond sovrani, secondo i regolamente bancari di Basilea, sono considerati risk free, e quindi le banche possono accumularli senza mettere sotto stress i propri coefficienti patrimoniali.

Di fronte a questo scenario Weidmann pone due questioni: smetterla di considerare i bond sovrani come risk free, e quindi computarli nel patrimonio bancario al pari dei bond delle aziende, e, tramite Unione Bancaria scoraggiare tale pratica utilizzando gli strumenti della supervisione e dell’eventuale risoluzione.

Conclusione: un sistema bancario più sano e meno esposto al debito statale, che quindi presta i soldi all’economia reale e non finanzia i deficit pubblici.

Ma è facile capire che la stessa storia si può raccontare in un altro modo.

Togliere la qualifica di risk free ai bond sovrani significa assimilarli a un qualunque altro bond corporate, che paga uno spread più alto perché incorpora il rischio del fallimento, formalmente assente dai default sovrani. Ciò comporterebbe, fra le altre cose, che le banche non avrebbero più la convenienza che hanno a comprare bond sovrani, e quindi, nell’immediato, ciò provocherebbe un aumento del costo del finanziamento per gli stati, tanto più se deboli.

Costoro dovranno assoggettarsi assai più di quanto hanno fatto finora alla disciplina dei mercati, dal lato fiscale. Il rischio che un’asta di titoli pubblici che vada male, quindi, diverrebbe assai concreto, con tutto ciò che questo comporta sulla tenuta dei conti di uno stato che, di fatto, potrebbe finire tranquillamente in default come una qualunque società, se i suoi fondamentali non sono buoni abbastanza da reggere il mercato senza l’obrello delle banche amiche. Quindi è meglio che tutti gli stati facciano le riforme, sennò…

Altra conclusione: la possibilità che uno stato fallisca (implicita peraltro già nel Trattato di Maastricht, che vieta il finanziamento via Bce dei deficit) è un fattore di potente stabilizzazione nel tormentato mondo dell’eurozona. Che si arrivi a tale risultato agendo sulle banche anziché direttamente sugli stati dipende dal fatto che sono loro a tenere la cassa dei governi.

Un bel default, insomma, serve a migliorare la disciplina, oltre a spostare sempre più peso specifico dalle entità nazionali a quelle sovranazionali.

Finché non succede davvero.

Il default statale come requisito della stabilità europea

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