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La libertà religiosa è al centro di un grande dibattito europeo e mondiale e torna spontaneo rifarsi alla grande sistematizzazione culminata durante il Vaticano II nella Dignatatis Humanae. Non tutti forse sanno che questo documento è largamente attribuibile al gesuita americano J.C. Murray. Un aspetto che contraddistingue il contributo di Murray al Concilio e alla definizione delle nozioni di “libertà di coscienza” e di “libertà religiosa” concerne la declinazione al plurale del concetto di “bene comune” e la conseguente riduzione dello Stato a ordine dell’amministrazione pubblica.

Murray ci dice che il perseguimento del bene comune è pertinenza della società nel suo insieme e di tutte le sue istituzioni secondo i principi di sussidiarietà e di giustizia. In breve, il concetto di “bene comune” andrebbe distinto da quello di “ordine pubblico” come conseguenza della distinzione tra “Stato” e “società”. Murray, che subì l’influenza di Sturzo e, in particolare, dell’opera Chiesa e Stato, ha mostrato perche la controversia “Chiesa-Stato” fosse irriducibile al campo monistico, ossia alla subordinazione della società ad una singola e indifferenziata cittadinanza, sperimentata attraverso l’onnicompentenza dello Stato.

La lettura dell’opera Murray e di Sturzo fa emergere un paradigma socio-politico di tipo poliarchico e sussidiario, un paradigma inconciliabile con la soluzione statalistica o corporativistica e che, di contro, postula la pluralità non gerarchizzata delle istituzioni e dei poteri sociali, irriducibile alla nozione di government e aperta a quella di governance; istituzioni create da uomini per altri uomini, dunque, contingenti, storicamente determinate e indipendenti. Per dirla con le parole del sociologo Diotallevi: «salta così ogni forma di progetto clericale, integrista o fondamentalista». Come scritto dal teologo Giuseppe Colombo: «si parte dalla evangelizzazione per “comprendere” – ma non per dedurre – l’azione politica», dal momento che l’evangelizzazione eccede la politica, così come, del resto, il bene comune eccede la politica.

Anche in questo caso, non possiamo esimerci dal chiamare a testimone Murray, il quale, in una eccezionale convergenza con la posizione sturziana, giunge a definire lo Stato «un ordine in seno alla società: l’ordine del diritto pubblico e dell’amministrazione politica». Lungi dal considerare lo Stato un’entità gerarchicamente sovraordinata, ribadisce che alle autorità civili spetterebbe il compito di eseguire alcune limitate funzioni a vantaggio della società. In definitiva, afferma Murray, «“società” significa un’area di libertà, personale e corporativa, mentre “Stato” significa l’area nella quale le autorità civili possono esercitare legalmente i loro poteri coercitivi. Negare questa distinzione, significa accettare il concetto di governo totalitario».

La lezione di personaggi come Sturzo e Murray ci consente di ridestare o di destare ulteriormente l’interesse sul rapporto tra religione e istituzioni economiche e politiche nell’ottica del paradigma conciliare, nonché di comprendere in modo ancor più profondo le parole di Papa Francesco, lì dove, nella sua recente enciclica Lumen fidei, mostra come la luce della fede non fondi la città di Dio sulla terra, quanto piuttosto qualifichi cristianamente le istituzioni che gli uomini saranno capaci di edificare per se stessi e per altri uomini, in un’incessante opera riformatrice.

 

Murray-Sturzo, quando lo stato serve la società

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