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Perché il papa attraversa il mondo per andare in un Paese tanto lontano quanto sconosciuto come la Mongolia e popolato da appena 1500 cattolici? In realtà la storia potrebbe parlare anche in Mongolia di una presenza antica, che risale ai tempi dell’impero mongolo, al XIII secolo. Ma poi i cattolici vi sono tornato nello sventurato Ottocento, poi è cominciata la stagione del comunismo e solo nel 1991 sono state stabilite relazioni diplomatiche. Il cristianesimo e il cattolicesimo ovviamente sono dunque apparsi quasi di conseguenza logica un qualcosa venuto da fuori e da lontano. Si trova anche in questo il senso del motto del viaggio, “Sperare insieme”, cioè la negazione di ogni intento annessionista o omologazionista, ma anche la conferma di una fratellanza nella società mongola e in quella dei popoli.

I viaggi di papa Francesco sono spiegati da molti anni nel nome delle periferie. Può sembrare uno slogan, e in parte forse lo diventa se non si unisce a questa definizione apparentemente geografica anche la categoria ecclesiale della missionarietà. Periferie e Chiesa missionaria spiegano meglio l’idea di Chiesa che prospetta Francesco: una Chiesa missionaria non celebra la propria forza o antica presenza, piuttosto sa che la sua vera qualità sta nel lavorare per attrazione, come per Francesco dovrebbe essere ovunque. Non chiedere riconoscimenti ufficiali, ma radicarli nei comportamenti, da spiegare come evangelici ed evangelicamente coerenti.

Andare in Mongolia dunque non è un’eccentricità, ma una scelta ecclesiale molto chiara e che si aggiunge a quella di ridare smalto all’impegno cattolico in Asia. Incastrata tra Cina e Russia la Mongolia presente in sé delle sfide rilevantissime: diffusa violenza domestica, alti tassi di disoccupazione, urbanizzazione, inquinamento galoppante, emergenza alcolismo. A tutto questo la Chiesa prova già a rispondere con la sua piccola presenza che ha visto giungere grazie al papa anche un cardinale, il missionario italiano Giorgio Marengo, il cardinale più giovane tra quelli che attualmente siedono nel Sacro Collegio, prefetto apostolico di Ulan Bator.

Lavorare per attrazione qui significa affrontare queste sfide insieme alla popolazione locale prescindendo da appartenenza o affiliazione tradizionale, anzi, conoscendo e riconoscendo il buddismo, che è la religione tradizionale di queste terre.

Il buddismo dunque è l’interlocutore religioso e qui emerge la prima sfida, che ha certamente molto da dire non solo alla Mongolia: questa sfida si chiama Cina. La diffusione più rilevante è infatti quella del buddismo tibetano e quando si parla di questo si parla del Dalai Lama, e dei problemi che ciò comporta con Pechino, per la decisione con Pechino ha colonizzato il Tibet e tenta di cancellarne le radici religiose e buddhiste. La visita del Dalai Lama in Mongolia, nel 2016, fu un bruttissimo segno per Pechino e tutto si aggravò con la sua scelta di dichiarare la decima reincarnazione del Jebsundamba, capo spirituale del buddismo in Mongolia, da Dharmshala, sede del governo tibetano in esilio, ha ulteriormente allarmato Pechino.

La Cina aveva appena tentato di nominarne uno ad essa gradito. Le protervie cinesi portano alla difesa del buddismo ma anche a sinofobia. Tutto questo non può che suonare familiare ai cristiani, che sanno bene come la scelta dei vescovi abbia costituito un rompicapo per i cattolici alla prese con quelli fedeli al papa, come è ovvio, e quelli fedeli solo a Pechino, come è ovvio solo per Pechino. Oggi la Santa Sede, come è noto, è alla prese con la difficile gestione dell’accordo provvisorio con Pechino che riguarda proprio la cruciale questione della nomina dei vescovi e della loro duplice fedeltà, al papa quali vescovi cattolici e a Pechino quali vescovi e cittadini cinesi.

Le esuberanze della Cina non sono certo finite, né si è spenta la memoria del doloroso passato e delle imprese coloniali alle quali il cristianesimo è stato associato. Si può dunque ben vedere, come ha scritto Jerome O’Mahony su The Tablet, che questo viaggio alla luce dell’esperienza maturata dal papa e dal suo segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, possa non solo tornare a parlare di una relazione antica tra cristianesimo e Mongolia, non solo novecentesca, ma soprattutto disegnare i nuovi contorni di una relazione tutta nuova tra autorità religiose e governi in quella parte di mondo. Anche l’Europa ha conosciuto concordati e ingerenze governative nella vita ecclesiale, non c’è da menare vanti o teorizzare guerre di civiltà, piuttosto mettere a frutto le esperienze e la reciproca conoscenza, i cambiamenti che questa ha prodotto riducendo la diffidenza. Nei limiti del possibile, ovviamente.

Ma c’è anche un altro senso, globale, che questo viaggio non può non trovare. La Mongolia ha bisogno del mondo, incluso l’Occidente, ma non può rompere con la Russia, per la disparità delle forze e del bisogno energetico che la espone. Per questo forse oggi la Mongolia può essere definita una potenza non allineata né con l’Occidente, al quale è avvicinata dal Giappone, né con Mosca, alla quale è avvicinata dall’importazione russa e dalle esportazioni in Cina.

Questo è un intreccio che davanti al conflitto in Ucraina può offrire alla Santa Sede un nuovo interlocutore fruttuoso per la sua visione all’insegna della fratellanza e non dell’inimicizia.

Il senso del viaggio del papa in Mongolia, per "sperare insieme"

Andare in Mongolia non è un’eccentricità, ma una scelta ecclesiale molto chiara e che si aggiunge a quella di ridare smalto all’impegno cattolico in Asia. Incastrata tra Cina e Russia la Mongolia presente in sé delle sfide rilevantissime. L’analisi di Riccardo Cristiano

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