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Passata la tornata delle elezioni amministrative con esiti che non hanno indebolito la coalizione di governo, è iniziata quella che dovrebbe essere “l’estate delle riforme”.

Per fine agosto, l’esecutivo dovrebbe presentare un progetto organico di riassetto del sistema tributario che prendendo avvio dall’imposizione sull’edilizia non può non toccare altri comparti.

Più o meno entro lo stesso termine, il governo dovrebbe delineare uno schema di riassetto istituzionale o, almeno, di nuova legge elettorale. La stampa quotidiana nelle sue varie forme (giornali, televisioni, web) accompagnerà questo percorso man mano che si dipana.

In primo luogo, l’Italia si troverà nei prossimi mesi in un contesto molto differente da quello considerato propizio alle riforme: un “testo di culto” Come fare passare le riforme di Albert Hirschmann (scritto negli anni Sessanta, ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990) – sostiene che le riforme necessitano anni di vacche grasse in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi).

Tesi analoghe sono state formalizzate  da economisti di rango come Douglas C. North e Mancur Olson. Saremo invece nel settimo anno di una recessione di cui la luce alla fine del tunnel viene rinviata (nelle previsioni Ocse e Fmi) di mese in mese.

Le analisi comparate degli ultimi mesi avvertono che, in tempo di contrazione economica, le riforme strutturali dovrebbero seguire un’agenda ben concepita, iniziando da quelle che più promettono in termini di spinta alla crescita ed hanno meno impatto sul sociale (anche al fine di contenere populismi di vari tipi e colori). Ciò significa liberalizzare i mercati dei prodotti e dei servizi prima di tentare di mettere ordine nel mercato del lavoro, nella previdenza e nella sanità. Ciò vuole anche dire approntare un rete universalistica di tutele sociali (in italiano una effettiva riforma degli ammortizzatori).

Senza dubbio la “riforma Fornero” segue in parte questi principi nelle materie di propria competenza, ma occorre chiedersi se le liberalizzazioni promesse dal governo Monti (ma attuate in modo molto pallido) non avrebbero dovuto precedere le misure su mercato del lavoro, previdenza e sociale e se la “stangata” tributaria agevola o frena le riforme.

In queste materie, nelle ultime settimane di maggio, abbiamo rinunciato a un importante strumento, senza che la “grande stampa” lo abbia notato: il negoziato per una zona di libero scambio atlantica poiché, al traino della Francia abbiamo posto il veto alla riforma della politica agricola comune e alla excéption culturelle (ossia le barriere all’audiovisivo).

La zona di libero scambio avrebbe potuto essere una molla per la concorrenza analoga a quella che fu il Trattato di Roma nel 1957 ed il mercato unico negli anni Novanta. Avremmo potuto pensare a riforme con la prospettiva di un barlume di crescita. Invece, occorrerà farlo, governando il declino. Ciò può causare  nuovi ostacoli a riforme delle regole, provocando irrigidimenti (North). Inoltre, in un contesto di declino, le finalità delle riforme possono essere fraintese (Hirschmann) e lette come misure-tampone di breve periodo.

Quindi, il nodo centrale di una  politica economica a medio termine è differente da quello che è stato per decenni al centro del dibattito: la ricerca di un equilibro tra risanamento della finanza pubblica e mantenimento di pace sociale in un contesto di crescita economica moderata.

Il governo del declino comporta una politica economica che promuova (con la rimozione di vincoli istituzionali) i settori ed i comparti che in atto o in potenza hanno la maggiore competitività internazionale, pur rispettando i vincoli di finanza pubblica e minimizzando le tensioni sociali inevitabilmente connesse alla trasformazione del tessuto economico e sociale.

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