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Più che una marcia trionfale per l’Italia, l’esperienza maturata nel corso del primo quarto di secolo della vita dell’euro è stata quel “purgatorio” che Antonio Fazio, allora governatore della Banca d’Italia, aveva previsto. Periodo di purificazione, quindi, secondo la dottrina della Chiesa, in attesa di poter ascendere verso una beatitudine, ancora di là da venire. Il periodo precedente quella nascita era stato caratterizzato da alti e bassi. Si sperava, tuttavia, questo almeno il sentiment delle anime belle, che la frusta del vincolo estero potesse in qualche modo imporre quella disciplina che il carattere tendenzialmente anarchico degli italiani aveva per troppo tempo rifiutato. Speranze in larga misure andate deluse.

Stando ai dati di Eurostat così, infatti, non è stato. Il confronto con i valori medi dell’Eurozona, per quanto riguarda la produttività oraria del lavoro, è impietoso. Così, come il confronto più ravvicinato con Germania, Francia e Spagna: Paesi che, per stazza economica, possono essere paragonati al Bel Paese. In tutti questi casi l’Italia appare sempre nelle ultime se non nelle ultimissime posizioni. Uno stato comatoso che si è trascinato per più di un ventennio. Resta solo da chiedersi: se questo fosse vero, come mai l’Italia è ancora in vita. Quello che stiamo vedendo non è certo il migliore dei mondi possibili, ma nemmeno quell’inferno che quei dati lasciano intuire.

Questa storia della bassa produttività e dei bassi salari sta diventando un luogo comune. La relazione è perfetta. Fa comodo al padronato che, in tal modo può respingere le richieste dei propri lavoratori. Vorremmo poter offrire di più – questo il leitmotiv – ma quel vincolo imprigiona tanto voi quanto noi. Non dispiace nemmeno al sindacato, specie alla Cgil, sempre più soggetto politico, con la direzione di Maurizio Landini, meno attenta alla quotidianità di una battaglia di tipo laburista. E quindi alla fine il ristagno è la logica conseguenza dell’opportunismo dei primi e del cattivo battagliare dei secondi. Si pensi solo al vessillo del “salario minimo”, bandierina di tutta la sinistra. Elemento che distrae rispetto ai più rilevanti problemi del mondo del lavoro.

Vale quindi la pena di riflettere su questa sorta di tirannia statistica che condiziona il destino di tante persone. E che preoccupa sempre di più. Basti citare il recente intervento del Presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, in sede di audizione parlamentare, o l’ultima fatica di Francesco Giavazzi dalle pagine del Corriere della sera. Ma dell’argomento, analizzato in chiave “fuga da Alcatraz”, vale a dire dell’esodo dei giovani verso l’estero, sono stati in molti ad occuparsene: dall’Osservatorio Cpi al Cnel. Comune il relativo approccio: le politiche di offerta del lavoro. Soprattutto per i giovani varcare le Alpi rappresenta la via obbligata per trovare salari migliori e, quindi, una speranza di vita.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro, Agenzia specializzata delle Nazioni Unite, i salari italiani, in quest’ultimo quarto di secolo, sono stati sempre i più bassi, tra i Paesi del G20. Lo erano nel periodo compreso tra la nascita dell’euro e la Gfc (Global financial crise) del 2008, lo sono stati anche dopo: nel ciclo terminato con l’epidemia di Covid. Qualche segnale positivo si riscontra solo nel 2023 e nell’anno successivo. Anche in questo caso, secondo il rapporto, a farla da padrone è stata la bassa produttività del lavoro. Sebbene, nei due periodi precedentemente indicati, i salari fossero aumentati più della produttività, con conseguenti effetti di natura inflazionistica, sul quadro macroeconomico.

Sempre secondo l’Oil, “la produttività del lavoro viene calcolata dividendo il Pil reale per il numero di lavoratori e lavoratrici. La stima pondera i paesi in base alla dimensione della popolazione.” A prima vista un calcolo relativamente semplice. Forse troppo semplice, che rischia un po’ di apparire come le medie di Trilussa. Che cos’è che sfugge all’algoritmo? La complessità sociale di ogni sistema economico. Per carità nessun sociologismo! Ma semplice prudenza nel comparare realtà che, per motivi diversi, possono essere tra loro profondamente disomogenee.

Questo è soprattutto il caso dell’Italia. Lo è per motivi storici legati al dualismo della sua economia: tra un Nord avanzato ed un Mezzogiorno che non è ancora riuscito a trovare la giusta misura per incamminarsi lungo la strada della modernizzazione. Ma lo è anche per motivi più contingenti. La Gfc ha rappresentato, infatti, uno spartiacque, segnando un prima ed un dopo. Nei primi anni dell’euro il mercato interno italiano, ai fini dello sviluppo complessivo, aveva una sua centralità, dovuta anche ad una crescita dei salari ben oltre la produttività media del lavoro (l’analisi dell’Oil). Ed infatti il risultato era stato un crescente deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, nonché una forte dipendenza dai debiti verso l’estero.

Nel dopo, invece, grazie alle politiche deflazionistiche, in parte volute ed in parte subite, il traino dello sviluppo è stato rappresentato soprattutto dalla componente estera. I territori più dinamici – Lombardia, Veneto, Emilia – hanno sostenuto, con le loro esportazioni, il trend produttivo dell’intero Paese, mentre l’austerity comprimeva le importazioni dei beni non essenziali. Il vecchio deficit della bilancia dei pagamenti è stato, pertanto, rapidamente assorbito, dando luogo ad un surplus crescente delle partite correnti. I vecchi debiti con l’estero sono stati ripianati. Trasformando l’Italia da Paese debitore in un Paese creditore: ponendosi subito dopo la Germania e l’Olanda.

Si può calcolare che questo sforzo sia stato pari a circa il 40 per cento del Pil attuale. Naturalmente la geografia economica del Paese ne è risultata sconvolta. Alle eccellenze di quelle aziende e quei settori che, nella meccanica, nella farmaceutica o nell’abbigliamento, facevano profitti, conquistando aree di mercato, si contrapponevano settori molto meno dinamici come quelli del settore energetico o della chimica. Riproducendo un dualismo caratterizzato da differenze abissali in termini di produttività del lavoro. Ma non di salario tendenzialmente uniforme a causa dell’eccessiva centralizzazione della contrattazione collettiva.

Ed ecco allora spiegato l’enigma. L’immagine non vera di un Paese sempre maglia nera nelle classifiche sulla produttività, a causa del fardello rappresentato dai settori più arretrati dal punto di vista produttivo. Ma anche una politica salariale incapace di distinguere e di ottenere retribuzioni in sintonia con la diversa produttività di settore, di territorio, di azienda. Fin troppo centralizzata ed uniforme. E quindi cieca di fronte alle differenze, in base alle quali articolare una diversa piattaforma rivendicativa.

Peccato! A rimetterci non sono stati solo i lavoratori più impegnati e professionalizzati, che ottengono dalla loro dedizione solo un riconoscimento retributivo minimo. Gabbie salariali a rovescio. Ma è l’intero Paese. Lo scorso anno più del 15% del Pil, oltre 300 miliardi di euro, sono stati messi a disposizione dall’estero, quando potevano essere impiegati più opportunamente nel mercato interno. Se la domanda, grazie alle maggiori retribuzioni dei lavoratori più performanti, fosse aumentata. Ma così non è stato. E non lo sarà neppure in futuro se non cambieranno le regole che, allo stato attuale, penalizzano il merito senza peraltro contribuire a contenere il bisogno.

Produttività e salari, cosa c'è dietro la maglia nera dell'Italia. L'analisi di Polillo

Ecco spiegato l’enigma. L’immagine non vera di un Paese sempre maglia nera nelle classifiche sulla produttività, a causa del fardello rappresentato dai settori più arretrati dal punto di vista produttivo. Ma anche una politica salariale incapace di distinguere e di ottenere retribuzioni in sintonia con la diversa produttività di settore, di territorio, di azienda. Fin troppo centralizzata ed uniforme. E quindi cieca di fronte alle differenze. Il commento di Gianfranco Polillo

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