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Nei giorni in cui le tensioni in Medio Oriente dettano i tempi dell’attenzione globale, l’Arabia Saudita ha compiuto una mossa sconcertante abbandonando i suoi progetti di espansione della capacità di estrazione di greggio. Il ministero dell’Energia ha indicato a Saudi Aramco di mantenere la capacità massima a quella attuale, ossia 12 milioni di barili al giorno, come ha annunciato martedì la stessa compagnia statale di idrocarburi. Significa che i piani multimiliardari per portarla a 13, a pochi mesi dall’apertura del primo di una nuova serie di pozzi, sono stati accantonati quasi da un giorno all’altro – perlopiù senza una motivazione esplicita.

Sembra una vera rivoluzione per il primo produttore di petrolio al mondo, che ha passato gli ultimi mesi a esaltare le virtù dell’oro nero. In autunno l’Opec, guidato da Riad, sosteneva la necessità di investire nel settore fino al 2045 a sostegno della sicurezza energetica globale e per evitare l’impennata dei prezzi dell’energia. E il titolare del ministero di cui sopra, il principe Abdulaziz bin Salman, prometteva di trivellare “fino all’ultima molecola” nel sottosuolo della nazione. Del resto, erano già in corso i lavori in quattro delle cinque nuove aree petrolifere che avrebbero permesso al regno di ampliare la propria capacità entro il 2027.

È quasi inevitabile chiedersi se la decisione sia una conseguenza della transizione ecologica e del progressivo allontanamento dai combustibili fossili. Nelle stesse ore dell’annuncio BloombergNEF ha rivelato che la spesa globale per il passaggio all’energia pulita – l’installazione di capacità rinnovabile, acquisto di veicoli elettrici, creazione di sistemi energetici low carbon – ha raggiunto il livello record di 1,8 mila miliardi di dollari nel 2023, che diventano 2.8 considerando gli investimenti nella creazione di catene di approvvigionamento a energia pulita e altri finanziamenti.

Possibile, dunque, che dalle parti di Riad i calcoli tengano conto della probabile flessione della domanda di petrolio, che secondo l’Iea segnerà il suo picco entro questo decennio. Ma ci sono più variabili in gioco. A partire dal fatto che la stessa Arabia Saudita oggi sta pompando fuori dal terreno solo tre quarti del greggio che potrebbe estrarre, una conseguenza della campagna di tagli Opec+ su cui il regno saudita ha spinto assieme a Mosca – con tanta insistenza da causare l’uscita dell’Angola. Senza dimenticare il ruolo sempre più importante degli Stati in Nord e Sud America (con aumenti di estrazione in Canada, Stati Uniti, Venezuela, Guyana, Brasile), che sta lentamente erodendo il potere dell’Opec+ nei mercati globali.

Tra gli osservatori del settore c’è chi vede nella mossa saudita una semplice presa di consapevolezza: i prezzi relativamente stabili nonostante le crisi in Medio Oriente fanno pensare a capacità in eccesso. In combinazione con le prospettive di calo della domanda sul lungo termine, ci sono motivi sufficienti per fare marcia indietro sui nuovi pozzi. A dispetto delle previsioni Opec+, e al netto del fatto che il consumo globale di petrolio cresca da trent’anni a un tasso annuale di circa 1,2 milioni di barili al giorno.

C’è anche chi richiama un elemento più strategico. L’ambizioso piano Vision 2030 del principe ereditario Mohammed bin Salman tratta di infrastrutture, rinnovabili e digitalizzazione, e Riad lo sta alimentando con petrodollari e un deficit di bilancio che potrebbe arrivare al 4% del Pil nel 2024. Per pareggiare e mantenere a galla il fondo sovrano il prezzo del barile deve superare i 108 dollari, quasi trenta in più dei livelli attuali, ricorda l’analista Francesco Sassi. “In quest’ottica, Riad potrebbe aver calcolato che un aumento della domanda globale di petrolio nel prossimo futuro non richiederà un’ulteriore capacità produttiva”.

C’è poi chi vede nelle mosse di Riad un avvertimento all’Iea e ai Paesi consumatori: se si continua a parlare della fine degli idrocarburi, gli investimenti andranno essiccandosi, l’offerta potrebbe contrarsi, il prezzo alla pompa schizzare alle stelle. Ma lì c’è un elemento ulteriore, più sottile, rilevato dall’esperto Bloomberg di energia Javier Bias. Il problema per l’Arabia Saudita non è un calo del fabbisogno mondiale di greggio, scrive, quanto piuttosto il fatto che “i prezzi del petrolio alti hanno incoraggiato – alcuni direbbero addirittura sovvenzionato – l’aumento della produzione altrove, dal Mare del Nord negli anni ‘80 ai bacini shale americani negli anni 2020”.

Petrolio, retromarcia di Riad sull’espansione. Svolta (eco)logica o segnale strategico?

Dopo tanto tuonare sul ruolo degli idrocarburi, l’Arabia Saudita ci ripensa sulla costruzione di nuovi pozzi petroliferi (già in corso). È facile guardare ai record delle rinnovabili e ipotizzare un successo della transizione verde. Ma il calcolo è più complesso e si gioca sui piani sauditi di rinnovamento, sui produttori alternativi, sul delicato equilibrio tra difendere il prezzo del barile e stimolarli a produrre

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