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Ciò ch’è mancato, manca e, verosimilmente, continuerà a difettare nel Pd, è una analisi politica del voto del 24-25 febbraio. Un tempo, qualsiasi partito degno di tal nome, si sarebbe raccolto in sé, avrebbe tratto dall’esito elettorale, positivo o negativo che fosse, lo spunto per una riflessione approfondita dello stato dei rapporti fra partito e società, sul significato di ogni titolo di rappresentanza, sulla salute interna al partito medesimo. Per quindi giungere a spiegare se ci si poteva dichiarare soddisfatti dell’esito elettorale; se occorreva invece provvedere ad una rapida revisione dei rapporti fra vertice e periferia; sul perché e per come necessitava una qualche revisione: di tattica o, soprattutto, di strategia.

Di tutto ciò il Pd non ha fatto nulla. Il segretario, con molto ritardo, ha messo sotto accusa su “l’Unità” il partito che lui governava, e non altri; e si è dimesso soltanto dopo le due batoste prese con la non elezione né di Marini (il candidato concordato con la concorrenza, com’era correttamente giusto fare per eleggere un capo dello Stato che fosse espressione di tutto, o quasi, il paese), né di Prodi (il candidato dato per scontato avesse una maggioranza autosufficiente e invece abbattuto dai famosi 101 franchi tiratori del proprio partito).

Dopodiché il Pd ha dovuto subire un governo che ha al vertice un esponente proveniente dalle sue fila ma che, da subito, ha sollevato una autentica ribellione di quadri parlamentari (non interamente rientrata in sede di voto di fiducia); e, soprattutto, di quadri centrali e periferici l’uno contro l’altro armati, tutti insoddisfatti della mancata vittoria elettorale (data per certa e senza alternative) e in buona parte ammiccante al movimento che, nei fatti, ha prosciugato il suo eletto¬rato tradizionale. La tattica postelettorale derivatane è palesemente suicida. Ma è semplicemente incredibile che l’insurrezione generale proceda senza che si capisca quale sia la strategia di Caio, Tizio o Sempronio in baruffa continua fra loro (non si comprende bene con quanto seguito dietro).

In queste condizioni il Pd continua a non avere identità (il che costituisce, oggettivamente, il principale motivo del suo stato confusionale); s’azzuffa ai vertici fa una ventina di posizioni che non meritavano d’essere considerate correnti di pensiero e neppure politicanti; aspetta un Godot che non giungerà mai; e tiene a bagnomaria un governo rispettabile, condizionandolo negativamente quasi volesse liberarsene il più presto, per quindi consegnarsi alla marmaglia di piazza che aspetta di stritolarlo.

Un partito che raccoglie soltanto un quarto dei consensi popolari e che è riuscito ad occupare (suo malgrado) tutti i vertici istituzionali, e non ha la più pallida idea di dove andare, obbiettivamente non è in buona salute psico-fisica. Sono fatti suoi, si potrebbe aggiungere. Ma, essendo in un sistema bipolare, il male oscuro del Pd non è salutare né per l’altro polo (o gli altri), né per il sistema paese.

Il Partito Democratico di Epifani? Un partito allo sbando

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Guglielmo Ettore Epifani (Roma, 24 marzo 1950) è un sindacalista e politico italiano, segretario generale della Cgil dal 2002 al 2010. Nel 1953 la famiglia si trasferì a Milano per poi tornare a Roma, nel quartiere Talenti, dove Epifani terminò il liceo presso il liceo Orazio conseguendo la maturità classica nel 1969. Nel 1973 si laureò all'Università La Sapienza di…

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