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Su materie così scottanti come un’equa tassazione di tutte le imprese, grandi o piccole che siano, al pari che nazionali o multinazionali, non è sufficiente firmare un trattato internazionale per porre un freno alla sleale concorrenza fiscale tra stati e all’elusione della tassazione nei Paesi dove il prelievo è più oneroso. Nel novembre del 2021 i paesi del G20 si sono accordati con un trattato su alcune regole volte a chiarire sia la giurisdizione in cui le grandi multinazionali sono tenute a versare le imposte sul reddito prodotto, sia il livello minimo sotto il quale il prelievo fiscale non può scendere.

Il primo gruppo di norme passa sotto il nome di Pilastro 1 e il secondo di Pilastro 2, con la fissazione al 15% della soglia minima di tassazione effettiva, rapportata alla base imponibile armonizzata tra Paesi. La necessità di un trattato ad hoc è apparsa di tutta evidenza con l’emergere di nuovi modelli di business: in particolare, i giganti del digitale, operando su scala globale, hanno buon gioco per evitare la tassazione nei singoli paesi in cui vendono beni e servizi, ricorrendo allo spostamento di fatto dei profitti verso quelli in cui possono ottenere le condizioni più convenienti. Tra la sottoscrizione di un trattato e la sua effettiva applicazione esiste, tuttavia, una vasta area di indeterminatezza che lascia aperte le porte ad aggiramenti e ritardi che vanno contro il raggiungimento degli obiettivi del trattato.

Per la fase applicativa, l’Ocse ha sviluppato una serie di altre regole che rientrano in un quadro complessivo (Inclusive Framework on BEPS), e includono approcci specifici per l’economia digitale e la definizione della base imponibile tassabile (Subject to Tax Rule). Oltre a stabilire quanta parte dei profitti delle più grandi multinazionali operanti in un paese è imponibile, si mira a prevenire la doppia tassazione, la proliferazione di imposte sul digitale e gli eccessi nei controlli. Il tutto è condensato in tre accordi:

1) una Convenzione Multilaterale sulla base imponibile, che dovrebbe essere ratificata da almeno 30 paesi entro l’anno per entrare in vigore successivamente;

2) una modifica delle linee guida dell’Ocse sui prezzi di trasferimento da applicare nell’ambito di imprese della stessa multinazionale;

3) un accordo sulla tassazione dei pagamenti all’interno del gruppo di imprese.

Attualmente più di 50 paesi, sui 138 che hanno approvato l’accordo, stanno prendendo le misure per darne attuazione. Nell’Ue è stata emanata la Direttiva n. 2523 del 14/12/2022, che recepisce le linee guida dell’Ocse sul secondo Pilastro, ovvero la tassazione minima al 15% per il gruppo di grandi società che operano su scala mondiale o in più stati dell’Ue, e per risultare effettiva si riferisce al loro reddito misurato secondo criteri omogenei con quelli degli altri paesi. La Direttiva si applica soltanto alle grandi imprese con un fatturato di almeno 750 milioni, creando di conseguenza una differenziazione rispetto a quelle medie e alle piccole. A sfuggire a queste regole sono anche tutte le imprese “non globali” con un fatturato superiore al limite di 50 milioni, che qualifica un’impresa come di media dimensione, ma inferiore alla soglia dei 750 milioni, ossia sfuggono imprese già abbastanza grandi ma non grandissime.

L’entusiasmo dell’opinione pubblica, che vede finalmente le grandi società assoggettate a una tendenzialmente meno iniqua tassazione rispetto all’attuale, va temperato considerando i molti dettagli della nuova normativa e le effettive disparità che genera. In primo luogo, la soglia di tassazione rappresenta solo il minimo e non quella che realmente lo Stato intende applicare. In Italia l’aliquota attuale è al 24%, mentre in alcuni paesi dell’Ue è al 15%. Pertanto, sussiste già una qualche concorrenza tra paesi nell’attrarre capitali dall’estero. Scendere al 15% comporterebbe per l’Italia una perdita di gettito, che seppure non ingente, è rilevante in questa fase di vincoli per la riduzione del disavanzo di bilancio in rapporto al Pil.

Secondo, l’aliquota del 15% non è la sola applicabile, in quanto alle società globali con ricavi annui superiori a 20 miliardi di euro è applicabile un’imposta aggiuntiva sul 25% dei cosiddetti “profitti eccessivi”. Questi ultimi sono quelli che eccedono il 10% di incremento annuo. Nell’Ue la direttiva entra in vigore all’inizio del nuovo anno e a tal scopo il Mef ha aperto in questi giorni una consultazione pubblica per definire il testo finale della normativa di recepimento. Alla riunione del G20 di quest’anno l’India e gli Usa hanno spinto per la rapida applicazione delle nuove regole per far sì che si possano applicare già dall’anno prossimo. L’India ha anche insistito sull’aumento della quota di profitti eccessivi tassabile, ma non sembra con esito positivo.

Terzo, la messa a punto delle regole applicative non è ancora completa con la conseguenza che si va incontro a un periodo in cui le attuali disparità di tassazione rimarranno. Forse nel 2025 il nuovo regime entrerà pienamente in vigore, ma quanti paesi saranno in grado di attuarlo in coerenza con le sue finalità? I dubbi sono rafforzati dal fatto che nel comunicato finale del G20 vi è un esplicito richiamo alla necessità di aiutare i paesi in via di sviluppo ad attuare le nuove regole. Si prevede a tal fine un piano di assistenza tecnica con la collaborazione di più paesi. Si è infatti ben consapevoli che diversi paesi in ritardo di sviluppo si prestano a divenire “paradisi fiscali” e alcuni già lo sono.

Ma anche quando l’accordo sarà applicato su scala globale, la concorrenza fiscale nell’attrarre investimenti dall’estero a spese di altri paesi non si estinguerà, perché i fabbisogni finanziari dei bilanci pubblici variano tra paesi e quelli con una maggiore capacità finanziaria possono ricorrere ad altri incentivi per mantenere aliquote fiscali sopra la soglia e nel contempo attrarre capitali. Lo si vede già nel modo in cui i maggiori membri dell’Ue hanno attratto multinazionali americane del settore dei semiconduttori al costo di miliardi. Si potrebbe dire che si pagano grandi incentivi e si recuperano sia in parte attraverso la tassazione dei profitti conseguiti, sia con l’incremento dei redditi e della produttività che derivano dall’investimento favorito.

Una corsa al ribasso della tassazione sulle grandi società verso la soglia del 15% non può nemmeno escludersi per non rimanere spiazzati da altri Paesi. È una strategia che alla fine non vede vincitori e vinti, ma accentua il ruolo delle altre caratteristiche del paese nell’offrire all’investitore estero un insieme di condizioni che ne rendono conveniente l’investimento. Anche il processo d’introduzione e gestione del nuovo regime può spostare le convenienze da un paese all’altro.

Per l’Italia, questo percorso incrocia quello della definizione in corso dei decreti delegati per la riforma fiscale, i cui principi generali sono stati già approvati dal Parlamento. In breve, può condizionare la scelta dell’aliquota e la definizione della base imponibile per l’imposta societaria nel quadro di un nuovo sistema “duale”, che ai fini della promozione dello sviluppo differenzia il prelievo tra gli utili reinvestiti e quelli distribuiti. Sul livello dell’aliquota vi è una tentazione a ridurla al 15% come previsto nell’accordo internazionale.

Nella determinazione del calcolo della base imponibile si potrebbe avere una maggiore latitudine d’intervento nel rendere effettiva la tassazione. Al G20 in India si è data una nuova spinta a tradurre in realtà gli accordi del 2021, ma occorreranno altre spinte, assistenza tecnica e un attento monitoraggio dell’osservanza per giungere a un prelievo armonizzato sugli utili delle grandi multinazionali.

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Al G20 in India si è data una nuova spinta a tradurre in realtà gli accordi del 2021. Eppure occorrerà ancora dell’assistenza tecnica e un attento monitoraggio dell’osservanza delle stesse intese, per giungere a un prelievo armonizzato sugli utili delle grandi multinazionali. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

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