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Giorgia Meloni si sta dividendo tra Puglia ed Albania per le sue vacanze estive. Eppure, nella testa del premier e anche in quella di Giancarlo Giorgetti, con ogni probabilità, è già tempo di pensare alla prossima manovra finanziaria. Con il favore e il credito dei mercati e smaltiti i giorni difficili della tassa sugli extraprofitti delle banche (ma la partita, in realtà, non è ancora chiusa), tra due mesi, giorno più, giorno meno, Palazzo Chigi dovrà alzare il velo sulla seconda manovra targata Meloni (quello dello scorso anno fu imbastita da Mario Draghi e poi limata dall’attuale esecutivo) e mandare il plico a Bruxelles per una prima valutazione.

BARICENTRO LAVORO

Ora, in mezzo a tanti dubbi, ci sono due certezze: primo, appare certo come il focus sull’energia potrebbe essere sostituito da quello del costo del lavoro con la stabilizzazione del taglio del cuneo fiscale, ad oggi assicurato fino a fine anno, una delle misure su cui ha maggiormente puntato l’esecutivo in questi mesi, per consentire ai lavoratori dipendenti dei avere buste paga più corpose viste le minori detrazioni. Secondo, la coperta appare già corta. Cosa, a dire il vero, a cui l’Italia è abituata da anni ormai.

UNO SPAZIO RIDOTTO

Le stime economiche per gli ultimi due trimestri del 2023 appaiono infatti meno brillanti di quelle dell’avvio dell’anno, tra scenario internazionale ancora caratterizzato dal conflitto in Ucraina e rallentamento dell’economia di Germania e Cina. L’Istat stima che nel secondo trimestre il Pil è arretrato 0,3%, mentre dal Tesoro hanno fatto sapere che il dato allo stato “non influisce sulla previsione annua formulata nel Def”. Tradotto, l’obiettivo di crescita è ancora pienamente alla portata (nel Def si parla di Pil tendenziale allo 0,9% per il 2023 e all’1,4% per il 2024).

Insomma, al momento la possibilità di ricorrere a nuovo deficit non c’è. Bisognerà verificare cosa scriverà il governo a fine settembre nella Nota di aggiornamento al Def, ma già nei saldi del Def di aprile scorso c’era uno scarto tra il deficit tendenziale previsto il prossimo anno (3,5%) e quello programmatico (3,7%) dovuto alle misure previste dal governo. Difficile che il governo possa presentarsi al tavolo delle trattative a Bruxelles sulle nuove regole di bilancio con una richiesta di maggior deficit.

OBIETTIVO CUNEO FISCALE

Che il taglio del cuneo fiscale sia il cuore della futura manovra è provato anche dai numeri. Se si prendono in considerazione la conferma del poc’anzi citato intervento, premi di produttività, risorse per sanità, contratti del pubblico impiego, missioni internazionali, enti locali, primo intervento sulla riforma fiscale, fino all’avvio del Ponte sullo Stretto di Messina, si arriva quasi a 30 miliardi necessari per il 2024. Ma al momento, di risorse certe ci sono i 4,5 miliardi ottenuti dallo scostamento inserito nel Def, più un altro miliardo frutto della spending review.

Anche perché l’impatto dell’imposta straordinaria sui profitti delle banche  secondo le prime indicazioni non dovrebbe superare i 2 miliardi di euro nel 2024. Si tratta pur sempre di entrate una tantum e come tali non utilizzabili, ad esempio, per sostenere in parte un intervento strutturale di riduzione dell’Irpef (che varrebbe 3-4 miliardi).

TRA TELECOM E ITA

Poi ci sono i dossier industriali. Tra tutti la cessione della rete di Tim al fondo Kkr e, in misura ridotta (20%) al governo italiano. Pochi giorni fa il Tesoro, che attraverso Cassa depositi e prestiti presenzia nel capitale di Tim con una quota di poco inferiore del 10%, ha infatti fatto sapere di aver raggiunto un accordo con il fondo statunitense Kkr,  che come detto sta trattando in esclusiva l’acquisto della rete infrastrutturale di Tim, per acquistare una quota fino al 20% di Netco. Per la formalizzazione dell’offerta vincolante c’è tempo fino al 30 settembre: c’è da capire se e come saliranno a bordo anche F2i e Cdp, che però non godrebbe di diritti di governance per ragioni Antitrust, visto che è azionista di Tim. E Ita, di cui si attende ancora il closing con Lufthansa, entrata nel capitale con una quota del 40%, ma destinata ad aumentare.

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