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Tutto si può dire di Paolo Gentiloni tranne che sia un politico che sgomita, tanto meno che sia un carrierista avvezzo allo sgambetto ai danni dei possibili rivali. La sua storia parla chiaro al riguardo. Ministro degli Esteri, presidente del Consiglio, euro-commissario: il suo triplete è dipeso più dalle scelte dei king-maker del momento, che dai piani strategici del diretto interessato. Da qualche mese, è partito un tam-tam che indica in Gentiloni il possibile timoniere di una coalizione o, in subordine, di un Pd, la cui navigazione, sondaggi alla mano, non procede spedita come la rendita di posizione elettorale, solitamente garantita, per ogni partito d’opposizione, lascerebbe sperare. Gentiloni non si è mai lasciato coinvolgere nel pissipissibaobao sugli eventuali futuri assetti in casa dem. E di sicuro se c’è un’operazione che più eviterebbe con l’abilità di uno slalomista, la scalata al vertice del Pd occupa il primo posto.

Ma l’attività politica spesso sfugge ai disegni individuali. Anche perché, mai come ora, le connessioni tra politica estera e politica interna sono inestricabili, pressanti e determinanti. L’Europa è a un bivio non solo perché nel 2024 i suoi cittadini saranno convocati alle urne. L’Europa è a un bivio perché le scelte di questi giorni, di queste settimane e dei prossimi mesi saranno decisive per i futuri decenni. O l’Europa ne verrà fuori più forte o coesa, come è sempre accaduto dopo i periodi di crisi e di lacerazioni, o l’Europa si slabbrerà sotto i colpi dei sovranismi interni, dei menefreghismi esterni (ipotesi ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca) e degli imperialismi di confine (Vladimir Putin e sodali).

Perché non si verifichi il secondo scenario, quello della disintegrazione continentale causata dall’eventuale vittoria delle forze lepeniste, è fondamentale che gli europeisti di sinistra, di centro e di destra facciano quadrato attorno all’edificio costruito dai De Gasperi e dagli Adenauer. Non è facile, dal momento che non tutte le famiglie politiche di sinistra, centro e destra, lavorano per un’Europa federale, ossia per gli Stati Uniti d’Europa. Per non parlare delle formazioni dichiaratamente anti-europeiste, che non cederebbero a Bruxelles neppure un grammo di sovranità, semmai non vedrebbero l’ora di scendere in piazza per riprendersi ogni potere nel segno del primato degli Stati nazionali.

Il presidente francese Emmanuel Macron, il più europeista tra i grossi calibri del Vecchio Continente, è perfettamente consapevole della portata della posta in palio. Non a caso ha sempre tifato per Mario Draghi, che dell’Europa, non solo monetaria, è il salvatore riconosciuto. Ma sbandierare il solo nome di Draghi non sarebbe sufficiente nella competizione con le sigle e le volontà nazionalistiche. Servirebbe una più massiccia chiamata alle armi per coinvolgere, nella sfida, i nomi più illustri dell’europeismo politico, economico e culturale. E Gentiloni è uno di questi. Sì, ma con quale ruolo?

Gli addetti ai lavori pronosticano per lui un futuro alla Prodi, ossia un avvenire da federatore “ulivista” di tutte le voci del centrosinistra. Altri non escludono per lui addirittura un approdo alla segreteria del Pd, nel caso che, dopo le prossime europee, il partito guidato da Elly Schlein, non si schiodasse dal 19-20 per cento o andasse ancora peggio. Sta di fatto che ogni parola di Gentiloni è destinata a essere esaminata al microscopio con l’attenzione che solitamente viene riservata dagli analisti di laboratorio.

E così oggi l’importante discorso di Gentiloni sull’Europa, sul suo bilancio, sull’apertura all’Ucraina, sul suo ruolo contro la crisi climatica, sulla sfida per un’Unione federale cui sarà chiamata a esprimersi la sinistra democratica di ogni Paese (tra cui l’Italia), ha destato, com’era da immaginare, più di una reazione e più di un’interpretazione.

Diciamolo. Schlein non può essere annoverata tra gli euro-scettici. La sua linea sui temi caldi, come la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, non si è discostata molto da quella dichiaratamente filo-Kyiv di Enrico Letta. Ma va riconosciuto che la linea filo-ucraina di Letta era a prova di bomba, senza se e senza ma. La Schlein ha introdotto qualche distinguo, anche per venire incontro ai movimenti pacifistici venuti allo scoperto negli ultimi mesi.

Gentiloni, invece, sull’Ucraina, non si è distanziato di un millimetro dalle dure posizioni espresse quasi due anni addietro, dopo l’invasione da parte dell’esercito russo. Idem sulla questione del bilancio e delle politiche fiscali della Comunità. Gentiloni non ragiona come i cosiddetti frugali di Germania e Olanda, per i quali la parola debito è più esecrabile, più blasfema di una bestemmia pronunciata davanti all’altare. Anzi. Ma sa, Gentiloni, che la credibilità di uno Stato si misura dal rispetto che riserva ai patti sottoscritti. E i prossimi patti da sottoscrivere, più in funzione della crescita che della stabilità, non vanno dissestati con politiche lassiste riproponendo la tiritera che il rigore è sempre figlio del famigerato e fantomatico neoliberismo. Gentiloni appartiene a quel filone di sinistra che considera i vincoli di bilancio, una volta rimodulati e ridefiniti, non un’opinione discutibile, ma una direttiva da seguire. Linea troppo impegnativa, forse, per quella sinistra propensa a considerare le leggi di bilancio come eterne variabili indipendenti.

In Europa sanno che Gentiloni è una garanzia per le politiche fiscali e non fanno mistero di auspicare una più marcata moral suasion, se non un impegno più diretto, dell’ex premier nelle dinamiche decisionali del Belpaese. Probabilmente, in Italia il pressing su di lui è meno insistente che nelle altre sedi politiche europee, non foss’altro perché, come sopra ricordato, tutto è l’euro-commissario per l’economia tranne che un insaziabile pianificatore di poltrone. Ma, in politica, si sa, le volontà personali, a volte, contano fino a un certo punto.

E poi, a favore dell’ipotesi di un ingresso di Gentiloni nell’agone politico italiano, con ruoli di rilievo nella coalizione o nella forza principale della sinistra, giocherebbe un altro fattore. Dopo l’esperienza del democristiano Prodi, nessun leader del centrosinistra è mai riuscito a uscire vincitore dalle urne. E Gentiloni è un moderato di sinistra… Allora. Sarà l’Europa a dargli la spinta per giocare nel campionato politico italiano?

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